(foto Ansa)

oltre il catastrofismo

Coraggio, se gestita bene la siccità può diventare un'occasione di sviluppo

Giulio Boccaletti

La crisi idrica è un'opportunità per offrire al paese la visione di un territorio diverso. Ma servono risorse economiche, competenze tecniche e capitale politico

Si è ripresentato il problema della siccità. Poca acqua nel Po. Nevi limitate. Un crescente allarme sui giornali. Se non verrà una pioggia abbondante in primavera, avremo lo stesso problema dell’anno scorso. Dovrebbe ormai essere chiaro che sorprendersi, come questa fosse un’emergenza inaspettata, sarebbe come stupirsi ogni mattina nel vedere sabbia all’orizzonte in Arabia Saudita: la normalità non va contemplata, ma riconosciuta e gestita.

 

Nel passato il clima stagionale variava attorno a una media secolare che ci sembrava più o meno stabile. Le temperature e piogge potevano cambiare da un’estate all’altra, modulate da una sinfonia di fenomeni climatici raramente prevedibili. Nel lungo periodo, però, il clima ci appariva stazionario. E così abbiamo dimensionato infrastrutture e aspettative su di esso. Ma il clima del pianeta non sarà più così stazionario. Se la media si sposta, trascina con sé anche le variazioni attorno a essa. Fenomeni un tempo rarissimi sono molto più frequenti, ed eccedono la capacità di infrastrutture e istituzioni calibrate su condizioni diverse. La buona notizia è che questo problema è gestibile e, se gestito bene, può rappresentare un’opportunità di sviluppo. Servono risorse economiche, competenze tecniche e capitale politico. Le risorse economiche non mancano. Il governo dovrà spendere ancora una valanga di soldi europei. Se, avendo investito quasi 200 miliardi di euro, il paese non risultasse capace di gestire condizioni climatiche difficili si potrebbe legittimamente dichiarare il Pnrr un fallimento, dato che una delle “R” dell’acronimo è “resilienza” o la capacità di resistere a condizioni fisiche straordinarie. Per una volta, la retorica qui servirà a poco: gli elettori potranno giudicare i risultati semplicemente guardando fuori dalla finestra. 

 

Detto questo, i soldi non bastano. Vanno spesi con criterio, e per questo servono competenze scientifiche e tecniche. Anche queste non mancano, seppure non distribuite in maniera uniforme. Soprattutto, vanno integrate. La gestione dell’acqua non è soltanto un problema di ingegneria idraulica. Il punto di partenza è sempre la domanda d’acqua: che cosa farne. Ovunque, l’agricoltura e il manto forestale dominano. Gli altri usi – dal potabile all’industriale – sono volumi minori, e per lo più non consumano acqua ma ne trasformano le caratteristiche: l’acqua potabile diventa reflua nel passaggio da casa nostra, o quella estratta per raffreddare gli impianti termici torna in ambiente a temperature più alte. Per contro, la maggior parte dell’acqua che cade o viene buttata su campi o foreste evapora o passa attraverso le piante per fotosintesi e traspira. E’ persa ad ogni altro uso. 

 

Capire come ridurre la sete d’acqua del territorio richiede competenze agronomiche e selvicolturali poiché le due leve principali sono le scelte varietali (cosa crescere) e l’utilizzo di tecniche di precisione irrigua. Interventi sulla domanda devono poi essere accompagnati da investimenti infrastrutturali, per mettere l’acqua, che piove sempre più erratica dal cielo, a disposizione quando e dove serve. Per questo, servono competenze ingegneristiche ed ecologiche. Abbiamo imparato molto da quando ingegnerizzammo il Piave un secolo fa: le infrastrutture moderne non sono solo dighe e canali, ma anche ecosistemi. Per esempio, mitigare i rischi di alluvioni richiede casse di contenimento ma anche una gestione forestale che allunghi i tempi di corrivazione. 

 

Non ho menzionato sin qui perdite nella rete potabile, ossessione comune quando si parla di acqua in Italia. In realtà, nonostante la risonanza mediatica, esse non c’entrano molto con questo problema. Se tutta l’Italia riducesse le proprie perdite ai livelli di Milano, circa l’undici per cento, si risparmierebbero soldi, ma non si risolverebbe il problema del Po. Non vuol dire non fare nulla, ma riconoscere che senza affrontare il bilancio idrico totale, i servizi potabili continueranno a essere sotto stress indipendentemente dal livello di perdite. Tutti questi interventi devono poi essere integrati in base a criteri di natura economica. La metrica fondamentale non è l’efficienza, l’intensità idrica dei processi. Se così fosse, il modo più semplice di gestire la siccità sarebbe smettere di coltivare la terra del tutto. Usare poco non è l’obiettivo. Lo è la produttività, il valore economico per metro cubo di acqua usata. Non si tratta di dire agli agricoltori solo di usare meno ma incoraggiarli a produrre più valore, più stabilmente, con meno acqua. Anche nelle proiezioni più estreme, l’Italia avrà sempre più acqua di quanto non avessero storicamente Israele, la California o l’Australia, tutti stati che, in momenti storici diversi, hanno fatto della scarsità un motore di produttività, innovando pratiche agronomiche e istituzioni economiche e amministrative. E qui arriviamo alla politica, il terzo ingrediente per risolvere la questione. La gestione dell’acqua è un mondo di compromessi, negoziati, e soluzioni imperfette. Sempre. L’acqua si muove, ma i nostri campi, le nostre industrie e le nostre città no. Le scelte da fare sono sempre difficili perché nell’abbandonare il vecchio per il nuovo non si producono solo innovazioni, ma anche vittime. E’ compito della politica fare scelte che bilancino interessi economici e sociali, mitigare gli impatti su coloro che si trovano ad affrontare i costi di una transizione che serve alla collettività, e offrire al paese una visione di un territorio diverso.  Questa non è la prima volta che l’Italia ha trasformato il proprio paesaggio per garantire sicurezza idrica. Nel secolo scorso furono le aspirazioni di sviluppo economico che ci portarono a trasformare il territorio per convertire il clima nazionale in risorsa. Questa volta, dobbiamo farlo per assicurarci che l’economia che abbiamo costruito sia in grado di resistere a un clima che cambia. Il problema, in fondo è lo stesso. 

 

Nel brevissimo periodo, francamente non c’è molto da fare. Abbiamo perso un anno. Un’altra estate è alle porte. Dobbiamo cercare di prepararci facendo poche scelte sensate, sperando che la situazione non sia troppo difficile. Nel corso dei prossimi quattro anni però, si può aspirare a una trasformazione che metta in sicurezza il territorio. La lista dei possibili investimenti è lunga e deve essere prioritizzata in base all’efficacia nel ridurre la vulnerabilità. Per i fiumi più complessi come il Po, le autorità di bacino devono avere le competenze, risorse, e autorità necessarie per raggiungere una sintesi funzionante. Sarà un lavoro durissimo, che richiede grande capacità di ascolto per costruire una soluzione il più possibile condivisa.  Alla fine, però, la politica dovrà prendersi la responsabilità di portare quella soluzione a compimento, poiché affrontare la siccità che sempre più spesso colpirà il nostro territorio è necessario e urgente nella costruzione di un futuro prospero in un clima che cambia.

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