Addio a Roberto Perrone, grande cronista che non si accodava alla narrazione moralista dello sport

Piero Vietti

Un giornalista e un narratore, che cercava e trovava la notizia senza esserne ossessionato. Ha seguito Mondiali e Olimpiadi, scritto romanzi premiati, mangiato e bevuto godendosela e scrivendo anche di questo

Roberto Perrone sapeva diventare un vero bastardo, quando voleva, anzi un “vecchio bastardo”, come definiva il suo alter ego, Fred Perri, con cui per anni ha firmato una rubrica sportivamente scorrettissima su Tempi, rivista con cui ha collaborato fin dal primo numero per la sua amicizia con Gigi Amicone. Era ligure, e genoano, quindi burbero, leale, sorridente e umorale, ironicamente fedele alle sue origini e generoso. Un “vecchio bastardo” che non si accodava alla narrazione moralista dello sport, uno che spesso diceva l’opposto di quello che dicevano gli altri, ma non per il gusto della polemica, quanto per amore di realtà.

 

Roberto Perrone è morto domenica sera a 65 anni dopo una malattia che troppo in fretta lo ha portato via alla moglie Emanuela, ai figli Cecilia, Rachele, Giovanni, ai tanti amici che gli volevano bene, ai suoi tantissimi lettori, compresi quelli del Foglio, che dal 2018 lo trovavano sulle pagine dell’inserto sportivo.

 

Chi da domenica lo piange lo ricorda per la carriera al Giornale prima e al Corriere della Sera poi, firma di punta dello sport, uno capace di scrivere di calcio, pallanuoto, atletica, tennis, nuoto, uno che pigramente si potrebbe definire “maestro”, ma che se solo ci sentisse ci manderebbe a quel paese. Un cronista e un narratore, che cercava e trovava la notizia senza esserne ossessionato. Ha seguito Mondiali e Olimpiadi, scritto romanzi premiati, mangiato e bevuto godendosela e scrivendo anche di questo: non c’è un solo amico che non sia stato portato in uno dei “suoi” ristoranti, a tavola era uno spettacolo sentire i suoi aneddoti, come quello di lui giovane inviato all’allenamento del Milan che si ritrova a pranzare con i giocatori rossoneri – lo raccontava per far vedere come era diverso il calcio una volta, ma senza nostalgia, solo un po’ di orgoglio.

 

“Stiamo uniti”, scriveva alla fine di ogni messaggio e diceva alla fine di ogni telefonata. Perri era unito, autoironico quel tanto che basta per sapere di essere uno dei più bravi, serio nel lavoro quel tanto che basta per sapersi prendere non troppo sul serio. Aveva accettato di dare una mano al progetto del Foglio sportivo, cercato perché suggerito da amici comuni: iniziò con un ritratto di Buffon sul primo numero, continuò scrivendo di tutto, ringraziando sempre per lo spazio concessogli, chiamando “capo” un giornalista che non era degno neppure di slacciargli le scarpe, sostituendo a volte – unico a poterlo fare – la rubrica di quell’altro bastardo di Jack O’Malley. A volte telefonava soltanto per sapere “come stai”, negli ultimi mesi dello scorso anno scherzava sul suo essere un “vecchietto pieno di acciacchi”, ma giurava che prima o poi ci si sarebbe visti a pranzo. Quando la malattia lo aveva già costretto a letto, meno di due mesi fa scrisse su Tempi il suo grazie per l’anno trascorso: “Te Deum laudamus anche per questo 2022, perché se non Ti lodassimo anche quando tutto va storto che senso avrebbe tutta la nostra vita?”. Stiamo uniti, Perri.

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  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.