Già finito il  sogno dell'isola Covid-free

Bianco di Sardegna

Michele Masneri

Viaggio a Cagliari nell’ultimo weekend delle libertà. Nella Cagliarifornia tra fibra ottica e startup, col vento tra i capelli e la trasgressione (di andare al bar)

E’ durato solo tre settimane il sogno dell’isola delle libertà.  Da lunedì infatti la regione che si sognava speciale diventerà arancione come tante. Tempismo perfetto per il povero cronista che si era precipitato a Cagliari a raccontare la zona bianca, questa parte del Paese mitologica dove si possono svolgere attività ormai di massima trasgressione: andare al bar, suggere un caffè in loco, fare sport anche non da soli, e camminare non rasente i muri.

 

Arrivare, era impressionante. Da Fiumicino blindato, rosso, rossissimo,  l’aeroporto della capitale vuoto, partire per Cagliari pareva di andare a Tel Aviv, anche per l’emozione dopo mesi senza prendere un aereo. Volo Alitalia e non El-Al, quaranta minuti e non tre ore, però controlli bestiali, tampone, prima autocertificazione, poi seconda, e poi soprattutto iscrizione al portale Sardegna Sicura, dovevi dare tutti i tuoi dati, e dire dove andrai a stare, e quando ripartirai, eccetera. Non ti facevano le domande trabocchetto come quelli del Mossad (non ancora). Ma ti davano un QR code, che sei tenuto a esibire in ogni momento, se lo perdi sei finito.

 

Chi si registrerà su Sardegna Sicura verrà tenuto d’occhio. A controllare sono Carabinieri, Polizia, Forestale e pure Barracelli. Ma che sono mai i Barracelli? Cerco su Wikipedia: “un’istituzione pubblica di polizia locale, urbana e rurale tipica della Regione Autonoma della Sardegna. L’etimologia del nome barracello ha origine dallo spagnolo barrachel, che ha la stessa origine dell’italiano bargello, in sardo barratzellu/barracellu (che indicava una guardia armata di nomina politica, generalmente campestre)”. 

 

Avventori al bar sulla spiaggia del Poetto (Cagliari)

 

Insomma il sogno del governatore Solinas sembrava una splendida realtà. Fin dal primo lockdown agognava l’isola isolata, l’isola Covid-free. Voleva il passaporto sanitario che in realtà era un tampone. Lo imbruttirono. Lo presero in giro. Beppe Sala disse: “ce ne ricorderemo!” Che adesso, a esser complottisti, suona sinistro. Quanta invidia per l’unica zona bianca d’Italia. Sala disse anche: “io non andrei in vacanza laddove fosse richiesto un test di negatività al virus”. E ai milanesi: andate in Liguria. I milanesi non gli ubbidirono. La Sardegna venne invasa da continentali ansiosi di balneazione senza tampone. La Sardegna si trasformò in focolaio. A quel punto il continente non volle più i sardi. Cose che succedevano un anno fa, che per una pandemia è come un secolo, un millennio. Oggi il passaporto sanitario è realtà, Solinas fino a oggi era il fondatore dello Stato libero di Sardegna.  Il Ben Gurion sardo. 

 

Dunque si entrava, tamponati, QR in tasca da esibire al primo barracello.  E qui si apriva un mondo. Intanto tutti in giro: tutti a correre sulla spiaggia del Poetto. Pure assembrati! Aria di libertà, iodio, desiderio. Cagliari è davvero un po’ Tel Aviv – non a caso “città bianca” – e un po’ la California. Tutti tecnologici e abbronzati e civili e sono stati tutti almeno una volta in America o almeno a Milano, a fare uno stage. Tutti tornati nella terra promessa. “Io facevo 400 voli l’anno su Milano ma adesso me ne sto qui, non ci penso neanche a tornare come prima”, mi dice Andrea Iannelli, trentacinquenne imprenditore digitale e titolare di un’agenzia di comunicazione con sede anche a Milano, e che ha collaborato anche con Sala, agli inizi, mentre prendiamo un caffè in un baretto sulla spiaggia, accanto a giovani che armeggiano sui loro laptop. E' legale tutto questo?

 

“Se pensi che l’Internet italiana è nata qui, sotto il mare cristallino passano i cavi che portano i dati della fibra ottica”. Altro che Silicon Beach o Cagliarifornia; come da canzone di rapper locale Federico Chaves: “Tu in dieci ore voli in America, io in dieci minuti Cagliarifornia”, beh dieci proprio no; quaranta; però a prezzo fisso in bassa stagione, 70 euro da Roma e Milano, vari voli al giorno, meno del Frecciarossa, e più sicuro perché l’aria è cambiata regolarmente. Insomma, ti sogno Cagliarifornia.

 

“Cagliarifornia dove la gente per apparire s’infogna, e s’infoga, quando va al nord torna esaltato come se avesse la vita svoltato. Io odio volare e far l’emigrato, vorrei restare, lottare, invecchiare, continuo a sperare, coltivo l’amore, ma non vado via dalla città del sole”, canta Chaves. Rime non molto convincenti, ma nella media dei rapper o trapper scalcagnati nazionali, comunque ai cagliaritani piacquero pochissimo. E però le somiglianze con San Francisco son pazzesche, qui: vento che ti taglia la faccia; escursione termica micidiale, che consiglia abbigliamento a cipolla.

 

Strade inerpicate tra splendidi  parchi urbani anche forestosi (si sale al monte Urpinu, passando attraverso una specie di Golden Gate Park, con camioncini di food truck);  sulla spiaggia monopattini e biciclette elettriche e auto PlayCar, la Car2Go sarda. Tante app a chilometri zero (in questo è più come Israele, con le loro app locali): e poi c’è la Cnn sarda, Videolina, i giornali sardi, l’Unione Sarda come Haaretz.  I rapper sardi. Cagliari città stato. Non Cagliarifornia ma Tel Aviv, ecco. Stessi bonazzi che corrono, stessa tecnologia ovunque. Cortesie per gli ospiti. Nessuno spleen sciamannato da Sud dolente. I taxi, lindi, hanno tutti il pos, non ti taglieggiano come a Milano e Roma. 5G. I Barracelli al posto dei militi israeliani.

 

  Avventori al bar a Cagliari

 

Appena mi convinco che è Israele, ecco però la villa di Renato Soru, primo imprenditore internettiano d’Italia, che sembra Malibu, squadrata, su un promontorio.  Giriamo per il centro città. In giro tutti hanno la mascherina, non c’è quel tana-libera tutti che si pensava. Che se lo presentissero, che era destinata a finire? “Un po’ sono molto rispettosi, un po’ sono terrorizzati di perdere lo status di zona bianca”, mi dice Iannelli. Il pensiero torna all’estate scorsa.

 

“Quando gli untori d’Italia eravamo noi”, riflette Andrea Gatti, primario architetto specializzato in progetti di lusso, che ha rifatto il ristorante Niu della Rinascente (il giovedì, a pranzo, pieno o quasi pieno; passa Lia Serreli, direttrice generale dell’Unione Sarda; la vita scorre normale, musica, fritturina di pesce, una bottiglia di Smeralda, vermentino di un viticultore geniale cagliaritano che ha incastonato un piccolo brillante nell’etichetta; di lì, vendite alle stelle). Vino a pranzo, chiacchiere: robe proibitissime, ci si sente come dei Narcos. Non pubblico foto su Instagram, il resto d’Italia rosso o arancio mi insulterà (poi non resisto, posto lo stesso, insulti ma anche “rimani! W la libertà”. Siamo i nuovi partigiani. Bianchi. Del resto, insulti anche alla Sardegna bianca: maledetti, voi bianchi! Sono tempi così.

 

Dal balcone, intanto, ecco le navi da crociera in porto. Conterranno portatori di droplets? Il sospetto e l’ansia che tutto possa precipitare accompagna l’entusiasmo della vita normale. Accanto, un’enorme ruota panoramica, tipo Santa Monica. Di nuovo, Cagliarifornia.  Al telefono chiamo Mauro Aprile Zanetti che è tech evangelist presso una fondamentale startup californiana, Cloud4Wi, e lui viene (anzi veniva, quando si poteva), a Cagliari, università antica di 400 anni, a fare un corso di storytelling per insegnare agli ingegneri a come vendere la tecnologia, “partendo dall’utente finale e non dal prodotto”. Ora la sua azienda ha progettato un sistema di digital check in – “quanti fogli di carta abbiamo firmato, quante certificazioni abbiamo fatto in questi mesi? Come se fossero gli anni Cinquanta”. Ma per entrare in Sardegna già c’è la app. Anzi il passaporto. Comunque, secondo lui, Cagliari è meglio di Milano, c’è un ecosistema – così parlano i siliconvallici! – come quello californiano. Giovani, startup, tecnologia, banda larga, università, che si parlano. E bottarga al posto dell’avocado: direi meglio.  Insomma è fichissima la Cagliarifornia.  

 

Filippo Candio, ex campione mondiale di poker online, dopo aver vissuto – sì – in California, e a Las Vegas, adesso sembra seguire le orme dei Soru e prima di Niki Grauso, inventore di tv e radio leggendario, in quest’isola che ha questo strano primato tecnologico; tra le varie sue imprese digitali ha appena aperto un coworking dotato di bar, duemila metri quadri in centro, si chiama Hub and Spoke, su una via con caseggiati bassi che pare Palo Alto: dice che ha un sacco di richieste, che sono aumentate con la zona bianca (dentro, anche un imprenditore di Bergamo a caccia di occasioni immobiliari: ma i cartelli vendesi sono pochissimi, non c’è nessuna crisi, qui).

 

“Il fatto è che la Sardegna è un posto a parte, qui è tutto a sé stante, qui tutto arriva con tre anni di ritardo”, dice ancora l’architetto Gatti. “Dunque anche la crisi arriverà forse tra tre anni. O forse non arriverà proprio. Per ora non la sentiamo. Aprono fior di alberghi e ristoranti, e alla fine c’è una domanda interna che ci rende quasi autosufficienti. E poi ci sono tutti i sardi che emigravano e invece questa volta sono rimasti qui”. Intanto, fuori, lo struscio, la vita normale, che a Roma e a Milano sembra ormai dimenticata; edicole e bar aperti. Enzo Asuni, instagrammer-bien cagliaritano, normalmente a Milano ma adesso rimasto qui, mi porta tra i bar degli aperitivi. “Serata fiacca”, sospira, mentre vedo gran spritz e gin tonic e tavoli e chiacchiere, e studenti Erasmus che vagano per pizze al taglio. Chissà com’è fare l’Erasmus a Cagliari. “Poca gente, poca gente”, sospira la mia guida. Mi prende in giro? “Normalmente qui non passeresti nemmeno per la folla”. La folla? Ah, ricordarsela. 

 

Bianca e felice la Sardegna ha ballato tre settimane, e creato cortocircuiti. C’è chi emigrava qui per lavoro, al contrario, dal continente. Francesco Zacchiroli, principe dei barman bolognesi, ha preso l’aereo ed è venuto qui. “Io lavoro di notte. E che dovevo fare a Bologna, piena zona rossa? Io vado dove c’è il lavoro”, e giù, racconti nostalgici delle notti bolognesi, dei tempi in cui potevi mangiare qualunque cosa alle sei di mattina dopo aver fatto serata, e adesso se trovi una pasticceria aperta alle otto di sera è tanto.  Ma solo asporto. Salgo in un palazzone sul porto, altro pezzo di Silicon Valley vista mare. La startup Certy fa da intermediaria su acquisti online di cose usate tecnologiche, su siti come Bacheca.it e Subito.it per verificare che gli acquisti che si fanno siano reali, per evitare le numerosissime truffe. “Potevamo inventarla solo noi sardi, con la nostra leggendaria diffidenza”, mi dice uno dei fondatori, Riccardo Sanna.  Certy va benissimo, non è la solita startup all’italiana delle partecipazioni statali, funziona già sul mercato e ora si lancia anche nel settore delle seconde case estive: mandano dei certificatori a vedere che la tal villetta sia veramente a cinquecento metri dal mare, che la tal piscina esista davvero. Insomma: sempre il business model barracelli. 

 

Le seconde case, del resto, sono l’ultimo miglio della geopolitica di Ben Gurion- Solinas, fondatore dello Stato bianco di Sardegna. Giovedì ha firmato l’ordinanza: nemmeno i loro proprietari potranno entrare. Ventiquattr’ore dopo, la profezia di Sala: ecco la zona arancio.  La vendetta dei possessori di seconde case, i kibbutz dei milanesi? Ma già nei giorni precedenti, psicosi, e voci incontrollate. Piccole zone rosse locali. Sarroch, cinquemila abitanti, cinquanta casi, immediatamente sigillata. Ma chi infetta chi? Nei piccoli porti arrivano sbarchi di non tamponati, dicono.

 

E i camperisti?  Dice che non li controllano. Il camperista è il nuovo runner. A Orosei raduno di camperisti tedeschi: ci dicono di tornare a casa nostra. Immaginarsela con accento tedesco: è subito Fantozzi. Altre voci, altre spiagge: si vocifera di due positivi a Onanì (Nuoro). A Carloforte denunciano: siamo isolati! Traghetti sequestrati dalla Procura! Aiuto! (ma poi si scopre che non è a causa di milanesi a bordo, bensì per un dissesto della compagnia dei traghetti, dunque non c’entra niente il Covid). 

 

Nel frattempo, nelle tre settimane di zona bianca Cagliari stava da Dio. Un sacco di sport. A Cagliari – attenzione, body shaming -non esistono grassi, sono tutti super fit, numero di negozi sportivi esorbitante. Beatrice Boi, venticinque anni, trentamila followers, personal trainer, “Cambridge-Sardinia”, ha scritto sul suo profilo Instagram, mi mostra la nuovissima palestra Tribune, molto americana, tutta legni scuri e acciaio dentro un vecchio stadio; tutti fuori, a fare stretching o sollevando immani kettlebell.

 

Lei, che sta in giro per il mondo da quando ha 18 anni, è tornata appunto da Cambridge per il lockdown e per ora rimane qua, ma nel frattempo ha messo su una app per lezioni online “avendo clienti in America e in Inghilterra, mi sembrava giusto”, dice bevendo un cappuccino di soia dopo avermi sgridato perché secondo lei ingurgito troppe calorie. La rimpiangeva questa Italia? Mica tanto. Certo il pesce ha un altro sapore e le verdure pure. Ma punta a tornare presto fuori, possibilmente in America. “Un posto caldo. San Francisco”, ma guardi che a San Francisco fa freddissimo, come qui. Proprio lo stesso vento. “Ah, no, allora a Sud. Los Angeles”.

 

Ma è chiaro che qui avrebbe praterie davanti. Secondo l’Unione Sarda, con la pandemia i consumi dei cagliaritani sono cambiati: meno 90 per cento scarpe e abiti eleganti, più mille per cento del padel, il famigerato nuovo sport, un po’ tennis e un po’ squash, che ormai ha stregato l’italia. E anche la Sardegna. Che poi è Paddle o Padel? “Padel! E’ stato inventato in  Sudamerica. Come si scrive si pronuncia”, mi dice Mariano Adolfo Tallaferro, argentino da vent’anni a Cagliari, capo istruttore al Tennis Club Cagliari, all’ombra del monte Urpinu. “Tutti a Cagliari vogliono fare Padel. Le richieste sono esplose da quando c’è la zona bianca”. Ma adesso, in arancione? Che fare? Andrà applicata la normativa del tennis? Esiste un DPCM sullo squash? Contattare l’ambasciata argentina?  I migliori cervelli, in Sardegna e sul continente, sono al lavoro. 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).