Giusta e possibile: la flat tax fatta bene

Carlo Stagnaro

Una chiosa a Luigi Marattin

La flat tax è iniqua e impossibile. Lo sostiene Luigi Marattin in un post sulla sua pagina Facebook, dedicato a quello che – con qualche variazione – sarà nelle prossime settimane il piatto forte della campagna elettorale di Silvio Berlusconi e Matteo Salvini.  La discussione di Luigi è prevalentemente politica, e in buona parte condivisibile. Tuttavia, poiché tocca anche questioni più ampie, può essere utile vedere dove finisce la ragione politica e dove inizia invece il merito economico, su cui credo che sia necessario – come si usa dire – un surplus di riflessione.

Prima di farlo, due disclaimer: i) nel 99 per cento dei casi mi trovo d’accordo con Luigi, e nello 0,8 per cento ha ragione lui. Tuttavia, il tema di questo post (assieme al calcio) ricade nel restante 0,2 per cento; ii) è assolutamente corretto ritenere non credibile la proposta dei leader del centrodestra, perché totalmente carente sia sotto il profilo delle coperture sia sotto quello della visione più generale del sistema fiscale (di cui l’imposizione sul reddito è solo una parte, corrispondente a un po' meno di un terzo dell’intero gettito fiscale). Non deve quindi aggiungere nulla sotto questo profilo, se non che mi ritrovo nelle parole di Luigi. Quello di cui vorrei discutere è invece se la flat tax possa essere i) utile, ii) possibile, e iii) sotto quali condizioni e con quali obiettivi, per rendere l’Italia un paese più equo e più dinamico.

Luigi sostiene, anzitutto, che la flat tax sarebbe iniqua, in quanto implica che tutti i contribuenti (ricchi e poveri) sarebbero soggetti alla medesima aliquota; inoltre è scettico sul fatto che la progressività (richiesta dall’articolo 53 della Costituzione) possa essere reintrodotta attraverso il sistema delle deduzioni e detrazioni. Ora, questo sarebbe vero se ci muovessimo solo nell’ambito delle deduzioni e detrazioni esistenti e se ignorassimo il meccanismo dei trasferimenti. Ma ragionare seriamente della flat tax impone di guardare non solo all’imposizione sul reddito da lavoro, ma alla sua interazione con tutte le altre imposte che, peraltro, sono ad aliquota piatta nella maggioranza dei casi (Iva, accise, imposte sui redditi da capitale, ecc.) e con la struttura della spesa sociale. Il tema della progressività in questo senso può essere reso tranquillamente compatibile con l’aliquota piatta proprio intervenendo in modo coerente sulle altre imposte e su deduzioni, detrazioni e trasferimenti: per avere un’idea del come, rimando alla proposta di flat tax al 25 per cento dell’IBL (sul tema della costituzionalità, bisogna leggere Dario Stevanato).

Nel considerare questi argomenti – che possono convincere oppure no – non dobbiamo mai perdere di vista il punto di partenza, ossia il sistema fiscale come è adesso. E, se credete che quello italiano sia un sistema fortemente progressivo, buona camicia a tutti: non solo per l’andamento schizofrenico delle aliquote marginali effettive (che superano il 100 per cento in corrispondenza di redditi bassi!) e non solo per la natura regressiva di molte voci di spesa (per esempio quella universitaria: qui Giavazzi e qui Ichino e Terlizzese). La (limitata) progressività del nostro sistema fiscale si scarica tutta sui contribuenti dal reddito medio-basso (diciamo nella fascia 20-35 mila euro), mentre i ricchi sono sconosciuti al fisco (perché evadono) oppure pagano aliquote effettive relativamente basse (perché godono soprattutto di redditi da capitale).

Inoltre, e questo a mio avviso è il punto decisivo, c’è evidenza che la redistribuzione dal lato dei trasferimenti è più efficace di quella dal lato del prelievo (vedi qui). E ciò è vero soprattutto nelle economie dove il settore pubblico è relativamente inefficiente. Proprio per questo, tempo fa con Luciano Capone abbiamo cercato di spiegare perché la flat tax può essere “di sinistra”, purché calata in una revisione complessiva del prelievo e della spesa sociale che ne  appunto la progressività (revisione di cui lo stesso Marattin riconosce l’inderogabile necessità).

Non vi piace l’idea di un’aliquota unica? Si può pur sempre muovere verso l’appiattimento delle aliquote, riducendone il numero e la distanza, fermo restando quanto detto sul ruolo dei trasferimenti, come per esempio suggerito sempre da IBL nel 2008 con l’idea di tre aliquote “un quinto un quarto un terzo” (e tenendo ancora una volta presente che stiamo parlando della sola imposta sui redditi da lavoro, mentre il sistema fiscale non finisce lì).

Il secondo punto di Luigi – relativo all’impossibilità della flat tax sotto gli attuali vincoli di finanza pubblica – è assolutamente corretto nel momento in cui tale proposta arriva senza alcuna idea di copertura diversa dall’immaginifico “si ripaga da sé” (anche qui, IBL avanza diverse ipotesi di copertura, attraverso un mix di interventi dal lato delle entrate – allineamento di tutte le principali imposte al 25 per cento, riduzione delle spese fiscali – e della spesa).

Il punto cruciale è, comunque, il primo, e ha una ricaduta puramente politica: va bene criticare Berlusconi e Salvini per l’insostenibilità della loro proposta, ma non esime né dal prendere atto del fallimento del nostro sistema fiscale sotto quasi ogni metrica (a partire dal criterio della progressività), né dallo sviluppare una proposta alternativa. Qualunque essa sia, è difficile che possa prescindere da tre obiettivi di medio termine: riduzione del prelievo, semplificazione del sistema, razionalizzazione della spesa sociale.

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