
Ansa
Contro mastro ciliegia
Il delitto di Afragola, i quattordici anni di Martina, gli adulti sempre assenti
Martina aveva dodici anni, Alessio non era ancora maggiorenne: tutti parlano di femminicidio, pochi si chiedono dove fossero gli adulti e i loro “no”. Eppure è lì che inizia la tragedia, molto prima del rudere ad Afragola
Il dolore atroce dei genitori e di quanti volevano bene a Martina Carbonaro, la giovane di quattordici anni uccisa a colpi di pietra in un rudere urbano ad Afragola dal suo ex (ex che cosa, di preciso?) Alessio Tucci, non ancora diciannovenne, va rispettato e non commentato. Così come, crediamo, anche il dolore dei genitori di Alessio e di quanti gli vogliono bene. Soltanto pochi commenti hanno sottolineato le estreme giovinezze che contraddistinguono questo tremendo delitto. Quando è iniziata la loro storia due anni fa Martina aveva dodici anni, una bambina; Alessio era ancora minorenne. Quasi nessuno ha notato, o ha voglia di ammettere, che i casi di violenza che coinvolgono adolescenti sono in aumento. La mamma di Martina, le cui parole vanno decifrate col metro e il filtro del dolore, ha detto che quel ragazzo l’aveva “fatto pure sedere a tavola”. E a Martina aveva detto “che se non se la sentiva più di stare con lui doveva lasciarlo”, come se parlasse a un’adulta. Poi che “una mamma lo sente quando una figlia non è tranquilla” come parlasse in una serie tv. In uno sciagurato servizio-elzeviro del Tg1 di mercoledì sera abbiamo intercettato la frase “una ragazza che aveva voglia di mostrare al mondo quello che provava”. A dodici, a quattordici anni?
Non che venga in mente che a dodici, quattordici anni, tra quello che si prova e i social e le scelte di vita possa esserci bisogno di un diverso filtro. Di un filtro adulto. L’altra sera persino Bruno Vespa, un po’ tartufesco, ha faticato a trovare la parola, “possiamo dire una bambina”. Non sapeva come dirlo, poi ha chiesto: “Come facciamo a custodire?”. Che grande parola, custodire. Le addette ai lavori in studio hanno voltato lo sguardo e hanno fischiettato l’analisi logica del femminicidio. Abbiamo letto più volte, in questi giorni, che “no vuol dire no” e che è ora che i maschi lo capiscano. E’ ovviamente vero, nel caso dell’assassinio per negato possesso di Alessio, e di molti altri casi anche più adulti. Ma evidentemente non basta. Forse c’è da riflettere anche su altri “no”. Che pertengono ad altri. I “no” che gli adulti, i genitori, dovrebbero o avrebbero dovuto saper dire. Ad esempio a una bambina di dodici anni di non “fidanzarsi” con un quasi maggiorenne di incerta maturità. No, non ci esci, non ci vai. Perché? Perché lo abbiamo valutato noi. E se vado lo stesso? C’è un principio di autorità che ti costringe a prendere posizione. L’antico matri-patriarcato? Sempre meglio degli elzeviri del Tg1. Lo psichiatra Claudio Mencacci, intervistato dal Corriere, per quanto prigioniero dell’inesorabile schema della “mascolinità tossica” riesce a dire una cosa vera, scabrosa: “Occorre guardare al contesto culturale famigliare. I giovani sono meno esposti al ‘no’. Vedo carenza di educazione affettiva”, una volta “c’era una maggiore resilienza dovuta ai famosi no dei genitori”.
E’ stato giustamente riaffermato, in questi giorni, il principio base contro la mascolinità tossica: “No vuol dire no”. Ad Alessio non lo hanno insegnato, o non l’ha imparato. Ma resta il dubbio di quanto possa essere convincente una adolescente nel dire quella frase. E non soltanto perché più debole o impreparata, cosa che fa parte della dinamica dei corpi; ma perché per dire “no” bisogna credere alla sostanza di quel monosillabo. Alla concretezza del suo argine. Bisogna che un “no” lo si, sia sentito, vissuto, interiorizzato. Femminicidi e non solo. A Portici un ragazzo di quindici anni ha aggredito con un’ascia i genitori perché “avevano detto no” a qualcosa. I casi di cronaca sono mille. Maria Goretti aveva undici anni quando fu uccisa e il suo femminicida diciannove: le cose accadevano anche quando le ragazzine non uscivano di casa e i no erano no. Serve però porsi la prudente, rispettosa domanda anche sui no che non sono stati detti. Per cui appare sempre più difficile far capire, ai ragazzi di quattordici anni come quello della celebre serie sugli “incel”, il limite tra il lecito e il proibito. E a “tutte e tutti”, come dicono alla tivù, la consistenza di un divieto, di una situazione da evitare, da non provare. E il filtro giusto per le cose che si ha voglia di mostrare al mondo.


CONTRO MASTRO CILIEGIA
Meglio la sindaca riluttante che lo stentato italiano Augias

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