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Contro mastro ciliegia

Ultima generazione e il (non) diritto di incollarsi

Maurizio Crippa

Per il giudice di Firenze gli ecoattivisti che si incollarono alla teca della Primavera di Botticelli agli Uffizi non hanno commesso reati. Un precedente non incoraggiante per i futuri processi (in cui ci saranno danni materiali da valutare). Ma soprattutto un messaggio discutibile: il diritto a una protesta di minoranza vale più del diritto di tutti a godere di un'opera d'arte

Per il corso di affettività nei confronti delle opere d’arte, porelle anche loro, attenderemo la prossima indignazione, se mai ci sarà. Il corso di educazione civica per il rispetto dei musei – e anche del pubblico pagante, che ha diritto al selfie come ogni altro essere del pianeta – è ugualmente rimandato alle calende. Anzi a mai più, se come è probabile il giudice monocratico dell’Udienza pre-dibattimentale è anche sensitivo interprete dello Zeitgeist che assegna alla tutela delle opere d’arte assai minore importanza che non alle paturnie climatiche di giovani ecoansiosi che si appiccicano alle teche del Botticelli. La così detta “udienza filtro” introdotta dalla riforma Cartabia ha lo scopo di verificare la fondatezza dell’accusa per evitare che procedimenti fragili arrivino al dibattimento.

In questo caso il giudice monocratico di Firenze ha deciso che non debbano essere processati (il fatto non sussiste) i tre attivisti che nel luglio scorso si erano erano incollati alla teca della Primavera di Botticelli agli Uffizi. E il problema posto da tale decisione non riguarda l’eventuale danno materiale, che per una volta almeno non c’è. Il problema, diciamo così culturale, risiede invece nelle considerazioni che hanno condotto il giudice alla sua sentenza, e le possibili conseguenze della sua decisione su futuri processi analoghi, già in essere in varie città. Secondo il giudice fiorentino, infatti, i reati contestati non esistono: non si trattò di “una manifestazione senza preavviso”, perché non si tenne non in un luogo pubblico, una strada o una piazza, ma in un “luogo aperto al pubblico”; e non fu una interruzione di pubblico di servizio, perché gli attivisti non hanno imposto la chiusura della sala dedicata a Botticelli. Se sentite odore di cavillo, non siete i soli. Che poi non risulti esistere “nesso di causalità” fra l’azione che ha coinvolto il celeberrimo dipinto, metà quotidiana di migliaia di visitatori, e la decisione della direzione degli Uffizi di chiudere le sale, è una valutazione talmente sottile che farebbe di certo gola all’Azzeccagarbugli. Dunque, per il futuro, chi vorrà appiccicarsi a un Raffaello o alla cornice di un Rubens saprà di potere contare su un precedente pronunciamento favorevole. Invece un qualsiasi visitatore che mettesse casualmente le dita sulla teca di un’opera preziosa può star certo che verrà sanzionato secondo l’antico diritto, a meno che abbia la prontezza di spirito di strillare slogan a vanvera in favore di videocamera. Ma il vero punto, in tema di rispetto degli altri e di educazione all’affettività artistica, è un altro ed è più grave: se al pubblico viene impedito al di fuori di ogni regola di vedere l’opera per cui ha pagato, perché degli attivisti del clima ne hanno sequestrato la piena fruibilità e visibilità,  questo disguido non solo è giudicato non punibile, ma non è neppure passibile di giudizio. E i diritti del pubblico possono andare a farsi un giro. L’accusa era formulata male, gongolano gli avvocati. Si dovrà dunque istituire una nuova fattispecie “impedimento di vedere un quadro anche se si è pagato”, per rimediare all’illogicità del tutto?

Ovviamente chi ha emesso la sentenza è conscio di aver fatto una pur minimale giurisprudenza, che tornerà utile a imputati e difensori in altri processi. E si può soltanto augurarsi che laddove, cioè nella maggior parte dei casi, ultimo l’Arco della pace di Milano, l’imbrattamento e la manomissione abbiano causato spese per la pulitura e il ripristino, ci sarà un giudice che ne terrà conto: per il bene della collettività, che è pur sempre parte dell’ambiente. Ma la decisione di Firenze una cosa davvero sconsolante la dice, purtroppo: il diritto di tutti, in questo caso a godere dell’arte, vale meno del sopruso di una minoranza, di tre attivisti esaltati, di farne ciò che vuole. La nuova affettività.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"