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Contro mastro ciliegia

Pasolini e Alì dagli occhi azzurri: il coraggio della verità oltre ogni buonismo

Maurizio Crippa

Si intitola "Profezia", la splendida poesia sui migranti che PPP scrisse ben 60 anni fa. Pefetta per riflettere su Cutro. Ma non bisogna essere reticenti e mentire sul suo senso

È più famosa come Alì dagli occhi azzurri, del resto quel primo verso Pasolini doveva amarlo molto, se lo usò poi addirittura come titolo di un libro. Ma la poesia si intitola Profezia e invero lo è, perché gran poeta e cioè profeta era Pasolini. Profezia perché scritta esattamente sessant’anni fa, quando di migranti sulle nostre coste e di popoli che sorgevano dal mare nessuno ancora immaginava. Ma profezia è davvero oggi: “Alì dagli Occhi Azzurri / uno dei tanti figli di figli, / scenderà da Algeri, su navi / a vela e a remi. Saranno / con lui migliaia di uomini / coi corpicini e gli occhi / di poveri cani dei padri / sulle barche varate nei Regni della Fame”. Così è stata ricordata e ripresa, in questi giorni, per la luce drammatica con cui illumina il presente. Non solo perché dei fratelli di Alì si dice “sbarcheranno a Crotone o a Palmi, / a milioni, vestiti di stracci, / asiatici, e di camicie americane”.

 

Di più, come suggerisce Mario Giro sul Domani, perché “subito i Calabresi diranno, / come malandrini a malandrini: / ‘Ecco i vecchi fratelli, coi figli e il pane e formaggio!. E dunque per buttarla subito in politica, ‘onore a quei calabresi che hanno gridato chiedendo giustizia a Mattarella’. Ma le profezie richiedono coraggio, e sincerità. Quella che invece manca, chiamiamola reticenza, in chi in questi giorni ha ripreso Pasolini ma ha troncato la citazione a metà, dove faceva comodo.

 

Invece la Profezia di Pasolini va avanti, tremenda, senza nulla di quel consolatorio buonismo che al cospetto delle sue parole, che profetizzano anche di violenza, suona bugia. Raccontò Pasolini di essere debitore, per quella sua visione poetica, a un dialogo con Jean-Paul Sartre, che dalla Francia in uscita dal colonialismo vedeva senz’altro meglio cosa fossero le sponde dell’Africa di quanto si potesse fare dalla spiaggia di Sabaudia. Ma non a Sartre, all’ateo inquieto francese, si deve quella sorta di cesura nella lunga poesia, quel taglio netto per cui la visione gioiosa e liberatoria di “pane e formaggio” di Calabria, di occhi e idiomi che si riconoscono, si muta a un tratto nella premonizione di violenze e sconvolgimenti grandiosi, di quelli che “non si governano con i Pater noster”. Su questi uomini che “vissero come pazzi in mezzo al cielo”, Pasolini nei versi seguenti elabora un’altra profezia, niente affatto pacificata. Scrive, di essi, che “deponendo l’onestà / delle religioni contadine, / dimenticando l’onore della malavita, / tradendo il candore dei popoli barbari”, si sveleranno diversi.

 

Quasi vedendoli, come conoscendoli già, o in fondo confondendoli con i suoi sottoproletari di tutto il mondo, portatori di verità, Pasolini li descrive: “Dietro ai loro Alì / dagli occhi azzurri – usciranno da sotto la terra per uccidere – / usciranno dal fondo del mare per aggredire – scenderanno / dall’alto del cielo per derubare – e prima di giungere a Parigi / per insegnare la gioia di vivere, / prima di giungere a Londra per insegnare ad essere liberi, / prima di giungere a New York / per insegnare come si è fratelli – / distruggeranno Roma / e sulle sue rovine / deporranno il germe della Storia Antica”. Certo rifletteva, sessant’anni fa, sullo scontro-incontro tra nord e sud del pianeta, tra il Vangelo e Marx, tra Matera e Sana’a, i popoli ai bordi della “storia”. Eccetera. Ma il poeta vede sempre oltre, e capisce che quell’incontro tra popoli e occhi e lingue sarà anche scontro, e non potrà essere (male)inteso come una scampagnata di famiglie.

 

Si vorrà dire dunque, qui, che quei migranti morti abbandonati sulla spiaggia di Crotone, e tutti i fratelli di Alì inghiottiti dal mare, non andavano salvati, “non dovevano partire”, o altri odiosi non-pensieri dementi o criminali? Qualcuno leggendo proverà forse a sostenerlo, non capendo o volendo mentire. Qui si vuole soltanto dire – avendola letta tutta, la Profezia di Pasolini, e non soltanto i versi comodi  – e anche le riflessioni e i ritorni di un poeta sulla sua immagine-ossessione, che Pasolini aveva intuito, sessant’anni fa, che non sarebbe stato senza violenza, e persino senza un sentore di invasione, l’incontro con i popoli che vengono impetuosi dai “Regni della Fame”. Pensare di risolvere tutto con un buonismo irriflessivo, autoassolutorio, come se i popoli che vengono dal mare e da terre lontane fossero solo questione di buona volontà, già allora non era possibile. Sono più di dieci giorni che si dice “Cutro”, e la maggior parte degli italiani, e molti politici, anche in Parlamento, e persino tanti giornalisti, pensano ai peluche sulle bare, e così sia.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"