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L'Oms scopre che lavorare stanca, e stressa, e lo chiama burnout

Maurizio Crippa

Ma la grande medicalizzazione della vita non guarisce, e ha i suoi rischi

L’Organizzazione mondiale della sanità, carrozzone diversamente utile – diversamente perché è senz’altro utile, o vogliamo crederlo per incoercibile passione multilateralistica, per molte cose differenti da queste – soffre di una sindrome maniacale per la tassonomia, la classificazione di tutto ciò che è pur vagamente parente dello star male umano. Dovrebbe inserirsi da se stessa, con la sua acribia definitoria nei confronti dei molteplici dolori della vita, nella sua International classification of disease, di cui è in arrivo l’undicesima edizione. Compilata con lo stesso dolore sordo con cui milioni di impiegati, di scienziati e di piccoli burocrati in tutto il mondo riempiono ogni giorno i loro database professionali. Ossia svolgono il loro maledetto, inutile, stressante lavoro. Come fosse una malattia. Ecco, burnout si chiama. Alla lettera, esaurimento. Ma delimitato alle condizioni del lavoro, che del resto altro non è – se non siete delle influencer strapagate – che il dolente “mestiere di vivere”.

 

Non è una vera e propria malattia però, il burnout, ma un “problema associato alla professione”, una sindrome più minacciosa e vaga: “Cinismo, isolamento o in generale sentimenti negativi”; “efficacia professionale ridotta”; “partecipazione limitata nel processo di decision making”; “stress cronico impossibile da curare”. E chi non ne ha sofferto? Ci volevano gli scienziati dell’Oms? Il primo a occuparsene è stato lo psicologo tedesco Herbert Freudenberger nel 1974. Finalmente hanno scoperto che guadagnarsi il pane col sudore della fronte, la più biblica delle sindromi dai tempi di Adamo ed Eva, è una sofferenza. Ma non sorprende notare quanti commenti e applausi abbiano salutato questo riconoscimento clinico, quasi fosse un premio, o un indennizzo, alla carriera: finalmente l’avete capito quanto soffro soffro soffro. Quanto sono depresso, quanto mi manca l’aria e ho persino le fobie. Bisognerebbe suggerire, non a noi stessi colletti bianchi occidentali, ma almeno ai compilatori di regesti dell’Oms – ce li immaginiamo, consumati dall’amore per la salute universale, con dietro alla scrivania una foto di Salgado – di provare a chiedere come se la passano, a livello di deficit motivazionale, gli schiavi nelle miniere di diamanti a cielo aperto del Sudafrica, i tagliatori di canna di bambù in Asia, o anche soltanto a un camionista bulgaro o alle maestre d’asilo piegate tutto il giorno sui bambini. Se non è quello il male del lavoro. Altro che burnout. Del resto è un “fenomeno occupazionale”, se hai il reddito di cittadinanza chi t’ammazza più? Invece tutti gli altri da oggi saranno monitorati per i “problemi associati alla sfera lavorativa e alla mancanza di occupazione”.

 

Ma c’è un risvolto più serio, a queste comiche catalogazioni dell’ovvio. E’ che fanno opinione, cioè creano una mentalità. Una mentalità da malati. Sono i database della Grande medicalizzazione. Per la quale ogni cosa che non fa bene (in generale: vivere) o ogni difficoltà diventano malattie, cose che vanno incasellate e poste sotto un protocollo clinico, vuoi con una farmacopea, vuoi con un controllo comportamentale. Ma medicalizzare ogni aspetto imperfetto della vita ha un costo e un rischio. E’ come per la discalculia nei bambini a scuola. Che esiste ovviamente, in certi casi, ma come insegnava il nostro caro Giorgio Israel, matematico, è molte volte frutto di un cattivo ed errato insegnamento. Però la sua “diagnosi” è il contrario di una soluzione o un aiuto. Servirà a deresponsabilizzare il bambino dallo sforzo di imparare (sono malato) e gli insegnanti (serve l’insegnante di sostegno). Ma un giorno, quando il nostro discalculico andrà a cercare il primo lavoro, qualcuno aprirà un file, controllerà, e sentenzierà che non è adatto per tutti i lavori (di solito, i migliori). Ha una sindrome. La medicalizzazione della vita inizia come mania di inscatolare tutto, ma finisce per inscatolare noi. Altro che depressione da stress.

  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"