foto LaPresse

Start up, tra bolla mediatica e numeri (calanti) sugli investimenti

Marco Valerio Lo Prete
La Banca d'Italia, in un passaggio finora non pubblicizzato della sua Relazione annuale, ha detto che nel 2014 gli investimenti in start up sono crollati, quasi dimezzati. Di quali numeri parla? E perché non avviare una riflessione su come i media trattano il fenomeno?

Oggi, come ogni lunedì, è andata in onda "Oikonomia", mia rubrica in pillole su Radio Radicale. Qui trovate l'audio (nemmeno 5 minuti in tutto), di seguito invece il testo con qualche link.

 

Il racconto mediatico dei fenomeni economici non è immune alle mode più travolgenti ma pur sempre passeggere. E non pensiamo soltanto alle grandi dispute ideologiche che coinvolgono economisti, analisti e opinionisti negli ultimi anni, quelle del tipo “austerity sì” o “austerity no”, o il tormentone sulle diseguaglianza. Si prendano, per fare un esempio, le cosiddette “start-up”, spesso al centro dell’attenzione dei media italiani. Nonostante tanta attenzione, mi pare che sia sfuggito un breve ma incisivo passaggio contenuto nella lunga Relazione presentata dalla Banca d’Italia, nel giorno delle più succinte Considerazioni generali del governatore Ignazio Visco. In particolare, ecco cosa scrivono gli economisti di Palazzo Koch: “I finanziamenti a imprese start-up, operanti prevalentemente in settori a elevato contenuto tecnologico, si sono ridotti; (nel 2014) il divario già elevato [dell’Italia] rispetto agli altri principali paesi si è ulteriormente accresciuto”. Una considerazione, questa, che dovrebbe suscitare più di un interrogativo.

 

Banca d’Italia non fornisce dati nuovi per corroborare quanto descrive, quindi evidentemente fa riferimento ad altri dati considerati sufficientemente consolidati e credibili. Poco sopra si capisce quella che sembrerebbe essere la fonte di questi dati: “I dati diffusi dall’Aifi – scrivono sempre gli economisti di Palazzo Koch – segnalano che nel 2014 gli investimenti in capitale di rischio effettuati da società di private equity e venture capital sono rimasti in linea con l’anno precedente (3,5 miliardi), ma hanno interessato un numero minore di imprese (311 rispetto a 368)”. Effettivamente, analizzando l’ultimo rapporto dell’Aifi, cioè l’Associazione italiana del Private equity e Venture capital, si evince che all’interno di quelli che vengono definiti “investimenti in capitale di rischio”, quindi diversi dalle varie di finanziamento classico delle imprese a titolo di debito, “il comparto dell’early stage (seed e start up) ha mostrato un rallentamento sia in termini di numero di operazioni, passate da 158 nel 2013 a 106 nel 2014, con un calo del 33%, sia dell’ammontare investito, che è diminuito del 48% (43 milioni di Euro nel 2014 contro gli 81 milioni dell’anno precedente)”. A fronte di questi numeri, cioè ripetiamo 43 milioni di euro di investimenti in start up nel 2014 a fronte degli 81 milioni del 2013, e poi dei 135 milioni nel 2012, degli 82 nel 2011, è più che legittimo chiedersi: la notorietà e l’esposizione mediatica del fenomeno start-up, in Italia, è forse inversamente proporzionale alla sua effettiva incisività nell’economia reale?

 

[**Video_box_2**]Al netto di altre considerazioni che si potrebbero fare sia sulla modalità di raccolta di questi dati, sia sulle condizioni che più in generale in Italia si incontrano nelle fasi di apertura e lancio di un’impresa, è forse utile definire più propriamente cosa dovrebbe intendersi per “start-up”. Steve Blank, imprenditore per una vita e poi docente in America, ha scritto infatti che “le start-up non sono semplicemente delle versioni in miniatura di grandi imprese. Non crescono esattamente in base a programmi pianificati. Quelle che alla fine hanno successo passano rapidamente di fallimento in fallimento, e durante questo processo di adattano, si evolvono, migliorano le loro idee iniziali visto che imparano continuamente dai propri clienti. Una delle differenze fondamentali – scrive sempre Blank – è che le società esistenti eseguono un business model, le start-up lo cercano”. Da queste considerazioni, dunque, nasce una definizione di start-up che non tiene conto soltanto delle dimensioni della stessa impresa o della sua natura vagamente smanettona e hi-tech: “Start up è una organizzazione temporanea concepita per cercare un modello di business ripetibile e scalabile”, nel senso che può crescere o diminuire di scala in base a necessità e disponibilità. Start-up nel senso proprio del termine, dunque, sono aziende a tal punto innovative da generare classiche forme di distruzione creativa nei mercati in cui si trovano a operare, si chiamino esse Amazon, Uber o Google. In Italia, al netto di tante parole su questo fenomeno e di evidenti fenomeni di mero scimmiottamento di esperienze estere, i numeri sui finanziamenti alle start-up sembrano descrivere una realtà non ancora sufficientemente vitale e attraente per gli investitori.

Di più su questi argomenti: