Il palazzo di Banca d'Italia a Roma

Perché adesso, come ieri, tutta l'attenzione è sulla zavorra finanziaria dell'Italia

Marco Valerio Lo Prete

Dopo la vittoria del No, tutto il settore bancario apre in rosso a Piazza Affari. In un'analisi dell'economista Macchiati, il rapporto difficile tra il nostro paese e la finanza. C'entrano la refrattarietà al mercato e la mala giustizia.

Oggi, come ogni lunedì, è andata in onda "Oikonomia", la mia rubrica settimanale su Radio Radicale. Di seguito il testo con i link.

Più volte, in questa rubrica, ho trattato della questione “giustizia” e del suo impatto sui meccanismi economici. Il tema, come è noto, è caro ai Radicali ed era caro in particolare a Marco Pannella che a lungo, negli ultimi anni, aveva esortato anche le istituzioni italiane a quantificare gli effetti della malagiustizia sul nostro sviluppo. Tanta enfasi non dev’essere fuori luogo, se è vero che anche l’economista Alfredo Macchiati, docente alla Luiss Guido Carli di Roma, ha appena pubblicato per il Mulino un saggio intitolato “Perché l’Italia cresce poco” all’interno del quale tanto spazio è dedicato all’amministrazione della giustizia. 

Nel libro di Macchiati c’è un capitolo ad hoc sui “pilastri” dello Stato italiano che vacillano, cioè “giustizia e ordine interno”, ma oggi intendo soffermarmi su un altro capitolo, quello dedicato alla finanza. Mi concentro sul dossier finanza per due ragioni: innanzitutto perché pure in questo settore, apparentemente così lontano dalle aule di tribunale, si sentono gli effetti della malagiustizia; inoltre perché, dopo il voto referendario di ieri, è indubbio che proprio il comparto finanziario italiano – a partire dalle banche – sia quello che avrà bisogno di correzioni di rotta più urgenti.

Macchiati, dopo aver ricordato che “la funzione centrale del sistema finanziario è di canalizzare il risparmio degli operatori economici verso le imprese”, individua tre requisiti per “un sistema finanziario ben funzionante”. “Semplificando, si può convenire che un primo requisito è che vi sia un mercato di Borsa sviluppato. Mercati e intermediari non vanno considerati come alternativi: entrambi collegano debitori e creditori finali mediante la vendita e l’acquisto di strumenti finanziari e lo sviluppo dei mercati richiede l’offerta di alcuni servizi specifici offerti dagli intermediari. Ma se il mercato funziona, sostengono i pro-finance, avremo capitale e servizi per le imprese, risorse a disposizione per i settori innovativi ed elevata qualità dell’informazione per gli investitori. L’altra gamba di un sistema finanziario ben sviluppato sono gli investitori istituzionali (assicurazioni, fondi d’investimento, fondi pensione) che gestiscono il risparmio delle famiglie, ne diversificano il portafoglio e monitorano le imprese dove hanno investito. Infine ci vuole un sistema giudiziario ben funzionante: forte protezione dei creditori, tempi rapidi e procedure agili per risolvere le controversie”. L’Italia, su tutti e tre questi fronti, non brilla.

In primo luogo, il mercato in Italia conta assai poco e perciò si parla spesso di sistema estremamente bancocentrico. “Le imprese quotate con addetti tra 100 e 250, il cuore del cosiddetto quarto capitalismo, sono appena 55 su un bacino potenziale di quasi 2.000 imprese”. “Il mercato italiano, dopo la fiammata degli anni delle privatizzazioni, che peraltro ha riguardato la quotazione di grandi imprese, torna su valori molto modesti: agli inizi del nuovo secolo, subito dopo quel picco, il totale dei gruppi legati alla Borsa occupava circa il 5% del totale dell’occupazione dell’industria e dei servizi, contro valori stimati tra il 20 e il 27% di Francia e Germania. Non solo: la dimensione del mercato italiano è inferiore a quella di due paesi come Spagna e Polonia, usciti da mezzo secolo di economia non di mercato”.

“Un altro indicatore di relativa arretratezza del nostro sistema finanziario è rappresentato dal modesto peso degli investitori istituzionali (assicurazioni, fondi comuni d’investimento, fondi pensione): questi operatori, che possono contribuire a tenere sostenuta la domanda di titoli azionari, gestivano, nello scorso decennio, una quota della ricchezza finanziaria delle famiglie pari alla metà circa di quella mediamente gestita negli altri paesi dell’euro”. A questo scarso sviluppo hanno contribuito fattori come il tardivo abbandono di un sistema pensionistico a ripartizione e poi forme di ostilità al mercato da parte degli stessi incumbent bancari che avevano forti legami con la politica. Quando nel 1983 vennero istituiti i primi fondi comuni di investimento mobiliare, per esempio, le banche hanno subito ottenuto di controllarne lo sviluppo sia istituendoli sia distribuendoli presso la clientela. Da ciò sono discese, secondo Macchiati, una frammentazione del settore (perché ogni banca voleva avere la sua società di gestione fondi) non favorevole all’efficienza; una specializzazione nei fondi monetari e obbligazionari (in titoli di stato) piuttosto che in quelli azionari per la scarsa expertise nella gestione di questo tipo di portafogli di titoli; un’operatività in conflitto di interessi (perché obiettivo della banca era di collocare la quota del proprio fondo, non necessariamente il migliore) e costi elevati. L’Italia dunque è indietro sugli investitori istituzionali, inclusi quelli di nuova generazione come il venture capital: “Se ne parla da decenni ma ancora nel 2012 le società che hanno beneficiato di un investimento di venture capital sono 277 contro le 1.548 della Francia e le 1.291 della Germania; in termini di investimenti, secondo i dati dell’Ocse, una delle posizioni di coda: tenuto conto dei diversi livelli di reddito nazionale, il venture capital investe meno di 1/5 rispetto a quanto accade in Francia e meno di 1/ rispetto alla Germania”.

Nel nostro paese inoltre è particolarmente bassa la facilità di ottenere credito. E a questa situazione di svantaggio, scrive Macchiate, “sembrano certamente aver contribuito l’inefficienza del sistema giudiziario e la sua debole capacità di enforcement”. Varie indagini campionarie lo confermano. Insomma è difficile in queste circostanze che abbiamo brevemente descritto che un criterio operativo utilizzato da economisti come Raghuram Rajan e Luigi Zingales per valutare la bontà di un sistema finanziario, e cioè il fatto che un imprenditore con un progetto ben fondato ottenga le risorse finanziarie necessarie, possa essere soddisfatto.

In Italia, in definitiva, non c’è mai stata una forte constituency favorevole allo sviluppo finanziario, nemmeno delle banche al fondo timorose della concorrenza. E allo stesso tempo l’irriformabilità della macchina della giustizia ha aggravato, complice la crisi, le incertezze di imprenditori e operatori. Al netto del caso Mps e delle banche venete, è da qui che si dovrà ripartire oggi nel nostro paese per fare del sistema finanziario un motore dello sviluppo e per non limitarsi a passare di emergenza in emergenza.