L'attrice Brigitte Bardot durante la conferenza stampa tenuta a Roma per il film "Il disprezzo". Foto LaPresse 

il racconto

Brigitte Bardot, l'Italia e la nascita di un mito

Mauro Zanon

Snobbata dalla Parigi dei primi anni Cinquanta, accolta e “imbiondita” da Roma. L’Italia fu il laboratorio in cui l'attrice si trasformò da ragazza borghese in divinità pagana del Novecento. Una storia che percorre Cinecittà, via Veneto, l'Hostaria dell'Orso

Quando le chiedevano in quale paese avrebbe voluto vivere, Brigitte Bardot non aveva dubbi: l’Italia. E mentre Parigi, all’inizio degli anni Cinquanta, quasi snobbava questa ragazza di buona famiglia del Sedicesimo arrondissement, Roma la accolse a braccia aperte, la fece esordire tra i grandi di Cinecittà e mise le basi per l’esplosione del mito BB. In Francia, l’unico che aveva creduto in lei era il figlio di un immigrato russo, Roger Vadim Plemiannikov, che la conobbe durante un provino per un film di Marc Allégret di cui era assistente. Allégret l’aveva scoperta su una copertina di Elle e si era convinto che potesse essere la protagonista della storia che aveva in mente. Ma quando se la trovò davanti, non scorse nulla di speciale in quella diciassettenne dall’aria sbarazzina, che invece già fremeva per offrire il suo corpo agli occhi del mondo e diventare il sogno erotico più rovente del secondo dopoguerra.

Vadim, diversamente da Allégret, se ne innamorò subito. E capì che, dietro quegli occhioni da cerbiatta, c’era una donna che bramava di liberarsi dalla sua “prigione borghese”, l’incarnazione del femminile moderno, lo spirito del tempo. Dopo averla sposata nella chiesetta di Notre-Dame-de-Grâce-de-Passy, nel 1952, le disse che non doveva abbattersi se Allégret non l’aveva scritturata, che era soltanto una questione di tempo, perché presto, molto presto, sarebbe arrivato il momento della consacrazione, il mondo si sarebbe accorto di lei e non l’avrebbe mai più dimenticata. Tra gli incontri che cambiarono la sua vita, spicca quello con Olga Horstig. Fu Vadim, nel 1953, a consigliarle di scrivere una lettera a questa signora di origine jugoslava, emigrata a Parigi all’età di dodici anni, e diventata, dopo una parentesi nel giornalismo, l’agente delle star. E fu “Mamma Olga”, come BB la chiamava affettuosamente, a suggerirle di andare in Italia, a Roma, e più precisamente in quell’eldorado che era Cinecittà, dove il suo fascino parigino non avrebbe certo lasciato indifferenti i produttori italiani, abituati alla bellezza mediterranea di Gina Lollobrigida e Sofia Loren. Aveva ragione, Mamma Olga: bastarono infatti pochi mesi alla Bardot per attirare l’attenzione del milieu cinematografico romano.

Nel 1954, già recitava accanto a Lucia Bosè e Giorgio Albertazzi nel melodramma di Mario Bonnard “Tradita”, e lo stesso anno, in estate, cominciò la lavorazione di “Elena di Troia”, peplum italo-statunitense diretto da Robert Wise, dove indossava i panni di Andraste. La vedette era Rossana Podestà, magnifica nelle vesti di Elena. Ma i paparazzi, come ha rivelato Vadim nei suoi sapidi “Mémoires du diable”, braccavano BB all’uscita dai locali di Via Veneto. Con l’alibi storico-culturale, si usarono costumi che valorizzavano le sue forme. E l’erotismo sprigionato da quella silhouette era così impetuoso che alcuni tecnici della troupe faticarono a restare concentrati durante le riprese. Steno, nel 1956, voleva la parigina di cui tutti erano innamorati per interpretare Poppea nella commedia “Mio figlio Nerone”, dove Alberto Sordi era l’imperatore megalomane, a Vittorio De Sica era stata affidata la parte di Seneca e a Gloria Swanson quella di Agrippina. Ne uscì un film non indimenticabile dal punto di vista qualitativo, ma che passò alla storia perché sancì l’inizio della dittatura bionda di BB. “A Roma, quando ho interpretato il ruolo di Poppea in quel film mediocre intitolato ‘Mio figlio Nerone’, ho dovuto farmi decolorare dal parrucchiere della produzione perché Poppea era bionda. È stata l’unica cosa positiva di quel film. Che bella idea!”, aveva raccontato nel 2016 Bardot al giornalista Henri-Jean Servat. Già, che bella idea. Furono proprio i produttori italiani a imbiondire quella ragazza, seppur per esigenze di copione. Del resto, come scrisse Boris Vian nel testo di una canzone che rimase inedita, “La Parisienne”, che era stata concepita per BB e messa in musica da Alain Goraguer, “On a le monde/ Quand on est blonde/ Et bien roulée”. Che tutti fossero ai suoi piedi, ipnotizzati da quella creatura che “sprizzava sensualità anche dalle orecchie”, come disse Elsa Martinelli a Giampiero Mughini nel libro divenuto cult per tutti i bardolatri d’Italia, “E la donna creò l’uomo. Lettere d’amore a BB” (Mondadori), se ne accorse anche Vadim, prima al Festival di Cannes e poi a Roma. Una sera, sulla Croisette, la coppia decise di trascorrere qualche ora in discoteca con alcuni conoscenti, e tra questi c’era anche il produttore Raoul Lévy. Stuzzicata dal ritmo del cha cha cha suonato dall’orchestra, Brigitte si tolse le scarpe, e a piedi nudi si lanciò in una danza infuocata. “Raoul Lévy, Vadim e altri amici mi guardavano in modo strano. Al diavolo il conservatorio, e la sua disciplina stretta e implacabile! Le mie anche ruotavano, ondulavano, avevo caldo, stavo esplodendo. Mimavo l’amore al ritmo forte dei tam-tam, era come se un’altra me stessa possedesse il mio corpo! Lo champagne mi aveva rinfrescato la gola, e poi zut! Mi versai il bicchiere sul petto, sulle spalle, sulle cosce. Era freddo! Era buono! Ero divenuta folle!”, raccontò nella sua autobiografia, “Initiales B.B.”, pubblicata nel 1996. La stessa scena si ripeté a Roma, all’Hostaria dell’Orso. Negli anni Cinquanta e Sessanta, questo night club e ristorante era uno dei terreni di caccia preferiti dai paparazzi, da Rino Barillari a Tazio Secchiaroli, perché al suo interno si riuniva il jet set. E succedeva di tutto. Vadim e la Bardot erano sempre i benvenuti, e una sera, la giovane attrice si sentì particolarmente ispirata. Eccitata dalle bollicine dell’ennesimo bicchiere di champagne, si mise a ballare selvaggiamente, come non aveva mai fatto in vita sua, e subito, attorno a lei, si creò un cerchio di spasimanti che la contemplavano da ogni angolazione. Osservandola mentre faceva sciogliere i romani uno dopo l’altro, dietro i suoi occhialoni da esistenzialista di Saint-Germain-des-Prés, Vadim ebbe l’idea di “Et Dieu…créa la femme”, il film che nel 1956 trasformò un villaggio di pescatori, Saint-Tropez, nell’epicentro della mondanità internazionale, e BB in una divinità pagana da adorare.

Parole memorabili su Brigitte Bardot le scrissero due poeti italiani molto particolari. Il primo si chiamava Nico Buono, un professore veronese esperto in onirologia che della Bardot è stato l’ammiratore più devoto. Per Lei fece voto di castità e per Lei andò in gattabuia, dopo essersi incuneato nella camera di un albergo toscano dove la diva dormiva, soltanto per ammirarla e ascoltare il suo respiro. Da quell’esperienza nacque un libro, “In carcere per Brigitte Bardot”, dove le poesie sono piene di spazi vuoti “poiché – disse – le parole sono indegne” per descriverLa. Il secondo era un poeta senza saperlo: si chiamava Gigi Rizzi, l’eterno fanciullo della provincia italiana, che nell’estate del 1968 conquistò la donna “che aveva tutto e poteva permettersi tutto”, e un giorno cominciò a chiamarlo “mon amour”. “Ero fidanzato con la notte quando ci siamo conosciuti. Sembravi un marziano, un extraterrestre di stratosferica bellezza. Ma non eri quel personaggio dispotico descritto dai giornali. Eri fragile, malinconica, intelligente, sensibile, gelosa dell’intimità: diventavi furibonda se qualcuno la violava. Come i fotografi, che usavano il flash come un bazooka. Ci sono miti costruiti sul cartone: niente balle, tu eri vera. Per questo piacevi tanto. Chi ti era vicino si sentiva l’uomo più importante del mondo. Avresti voluto respirare anche la sua aria”, scrisse Rizzi in una lettera del 2004.

Con Gigi l’amoroso, come cantava Dalida, BB parlava soprattutto italiano, lingua che aveva imparato prima del francese grazie a Maria, soprannominata “Dada”, la sua adorata bambinaia, che le aveva insegnato ad “arrotare le erre” come les italiens, e che i nonni materni si erano portati con sé da Milano. La madre di Brigitte, Anne-Marie Mucel, era nata a Parigi, ma era cresciuta nella città meneghina, dove aveva studiato teatro, dove sognava di diventare una ballerina della Scala, e dove una sera, in un ristorante, incontrò suo marito: Louis Bardot. In un’intervista rilasciata a metà degli anni Cinquanta a Nizza, nei giorni in cui era impegnata nelle riprese di “Una parigina” di Michel Boisrond, spiegò perché, senza l’Italia, la Francia non si sarebbe mai accorta di lei, e non avrebbe mai avuto un impatto così dirompente nel mondo del cinema e del costume: “I miei primi film non sono stati un successo. E mi stavo convincendo che non avrei mai fatto nulla nel cinema. Poi però sono stata in Italia, e lì mi hanno fatto fare dei film che forse non erano bellissimi, ma dove sono stata fotografata bene, e per i quali è stata fatta una buona pubblicità. Ciò ha permesso alla Francia di rendersi conto che forse potevo fare qualcosa. E da quando sono rientrata dall’Italia ho cominciato a lavorare seriamente”.

Negli anni Sessanta, quando l’ingegnere del Cavallino rampante Leonardo Fioravanti e i suoi collaboratori osservarono la coupé sportiva che avevano appena concepito a Maranello si resero conto che era talmente bella che non potevano non dedicarla alla donna più bella del mondo. La Ferrari BB, commercializzata con il nome di Berlinetta Boxer, era in realtà un’ode a Brigitte Bardot. Milo Manara, il maestro del fumetto erotico italiano, ha sublimato la sua bellezza modellando una scultura in bronzo in cui BB è seduta su una conchiglia, scultura che oggi troneggia a Saint-Tropez, e dedicandole nel 2016 venticinque acquerelli. “Il suo pennello mi ha trasformato nella nuova Venere di Botticelli”, dichiarò BB, che firmò ogni acquerello con la sua inconfondibile margherita a sette petali, il suo modo per dire “je t’aime”, discretamente, a chi riceveva il fiore. Nessun paese l’ha amata intensamente quanto l’Italia, nemmeno la sua Francia. Con Marcello Mastroianni recitò in “Vita privata” di Louis Malle, girato a Spoleto nel 1961, e due anni dopo, accanto a Michel Piccoli, fu protagonista a Capri dell’indimenticabile “Disprezzo” di Godard. Il film del regista della Nouvelle Vague, nella sua interezza, diventerà un cult per i cinefili. Ma se c’è una scena che rimane ancora impressa nella memoria di tutti, anche dei non adepti di Godard, è quella in cui Camille/Brigitte prende il sole nuda sulla terrazza di Villa Malaparte. BB è distesa sul suo accappatoio giallo, accarezzata dal sole e con un libro aperto appoggiato sul fondoschiena: “Entrez sans frapper” è il titolo malizioso, entrate senza bussare. Brigitte Bardot amava Venezia e la sua “bellezza incompresa” perché le faceva pensare a sé stessa, e la “Toscana piena di gelsomini, di fontane e di cipressi”, dove girò “Il riposo del guerriero”. Con Raf Vallone, la stella italiana del Théâtre Antoine di Parigi, visse due mesi di passione travolgente nel 1958. E con un altro italiano, dieci anni dopo, trascorse l’estate più spensierata della sua vita: Gigi Rizzi. “‘Che cosa faremo da grandi?’, le chiedevo nella solitudine della Madrague. Sapevo già che non c’era risposta, che un giorno sarei scomparso dalla sua vita, senza scenate, lacrime o disperazione. Non si piange per un addio quando è previsto, fa parte del gioco dell’amore. E il nostro era un gioco, come lo sono certe avventure che ti lasciano dentro una grande felicità, perché con lei era impossibile non essere felici”, raccontò Rizzi nella sua autobiografia, “Io, BB e l’altro ’68”. L’Italia è stata centrale nella vita di Bardot anche negli oggetti con cui amava mostrarsi: dalla mitica Olivetti Valentine rossa disegnata da Ettore Sottsass, che Jean Aurel le mette in mano nel film “Les femmes” del 1969, al Riva Junior con cui faceva sci nautico nella baia di Saint-Tropez. Nel suo modo di camminare e di presentarsi al mondo, BB aveva la stessa grazia delle ballerine della Scala, che la madre, memore dei suoi anni a Milano, le aveva trasmesso. E anche quando interpretava dei ruoli selvaggi, come nel western “Le pistolere”, aveva un’eleganza regale. Che non aveva lasciato indifferente neppure Luchino Visconti. Nel 1970, il cineasta milanese aveva iniziato i sopralluoghi in Normandia per l’adattamento di “Alla ricerca del tempo perduto” di Proust. Il progetto venne abbandonato per la lavorazione di “Morte a Venezia”, ma per la parte di Albertine, Visconti, aveva pensato proprio a Bardot. C’è la foto di BB accanto alla scritta “Sii prudente, a casa ti aspetto io” nell’auto di Bruno Cortona (Vittorio Gassman), il protagonista del “Sorpasso” di Dino Risi, per il quale la diva francese incarnava la joie de vivre, la libertà, l’euforia e la spensieratezza della gioventù. Federico Fellini era rimasto talmente sedotto da quella creatura che un giorno pronunciò questa frase: “Se non esistesse, bisognerebbe inventarla”.

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