nuovo cinema mancuso
Anemone
La recensione del film di Ronan Day-Lewis, con Daniel Day-Lewis, Sean Bean, Samantha Morton, Samuel Bottomley
Non si era davvero ritirato. Aveva solo bisogno di ricaricare le pile. Così dobbiamo intenderla la scomparsa dagli schermi di Daniel Day-Lewis dopo “Il filo nascosto” diretto da Paul Thomas Anderson (per fortuna Sean Penn e Leonardo Di Caprio e pure Benicio del Toro, molto maltrattati nel recente “Una battaglia dopo l’altra”, hanno un’altra tempra). Daniel Day-Lewis racconta le riprese di “Anemone” come “pura gioia di stare insieme”. Con il figlio Ronan: hanno scritto il copione, ora il genitore recita e il figlio dirige. La “pura gioia” si trasforma per lo spettatore in due e ore e un quarto di tormento. Cieli grigi, casette nel bosco più fitto, solitudine selvaggia sulla costa nord dell’Inghilterra. Arriva a trovarlo il fratello, l’attore è Sean Bean e regge benissimo il confronto con il principe della recitazione. Uno che borbotta al minuto 17, e poi gratifica lo spettatore di due monologhi, uno piuttosto cruento. L’eremita e il fratello in visita dicono le preghiere e si lavano i denti, con l’immancabile “fuck off”. Parlano delle mutande di Dio, noi vediamo la fiamma del camino riflessa nella pupilla. Boccheggiando, aspettiamo un briciolo di trama, il trauma della guerra e dei preti pedofili non riempiono 2 ore e un quarto. Il fratello si fa portavoce del nipote, che vorrebbe vedere suo padre. Lo zio, insomma, che è fuggito lasciando la moglie incinta. Colpa della guerra, ovvio. Ma il figlio ne ha risentito parecchio.
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Un semplice incidente