1946-2025

Siamo tutti Mary Wilke (grazie, Diane Keaton)

Andrea Minuz

Il genio dell'attrice fu di non fare del personaggio di Manhattan una caricatura. Era un prototipo. Un sistema operativo che si sarebbe replicato per decenni e che oggi è all’apice della sua gloria.

Il più grande regalo che Diane Keaton ha fatto alle donne è Annie Hall (poi anche un’altra Annie, quella del “Club delle prime mogli”, ottima dopo i cinquanta). Ma il più grande regalo che ha fatto a tutti quanti – donne, uomini, qualsiasi altra cosa – è Mary Wilke. Rivedetevi su YouTube il suo sontuoso ingresso in “Manhattan” (“The Academy of the Overrated”). Capirete che tutti, ma proprio tutti, siamo stati Mary Wilke almeno una volta nella vita. Voglio dare per scontato che il film ve lo ricordiate – quel bianco e nero, quel Gershwin, l’Hayden Planetarium ecc. – perciò parliamo di lei e del suo ingresso in scena. Woody Allen è a spasso con Mariel Hemingway, sua fidanzata minorenne, tra le sale del Guggenheim. Qui incontra per caso l’amico Yale che è lì con l’amante, una donna sofisticata, intellettuale, ipernewyorchese: Mary Wilke. Mary Wilke scrive pezzi per “Insight”, è di Philadelphia, “crede in Dio”, trova che nei film di Bergman ci sia “troppo Kierkegaard” e tutto ciò che ha appena visto al Guggenheim le fa schifo, tranne un enorme cubo d’acciaio di cui esalta la “capacità negativa”. Mary Wilke lo trova “very textural” – e vi prego di notare la faccia, il sussurro con cui le esce quel “textural” (termine all’epoca reso di moda dai vari Derrida e Baudrillard che in quegli anni invadevano i campus americani). Con Yale, ha buttato giù una lista dei “sopravvalutati”: Mahler, Jung, Fitzgerald, Lenny Bruce, Norman Mailer. Woody Allen, come noi, la detesta. Una mitomane. Sappiamo come andrà a finire.


Quando Diane Keaton interpreta Mary Wilke ha trentatré anni ed è al culmine della sua capacità di rendere insopportabile qualcuno pur mantenendolo umano e fragile. Molte ragazze che ho incontrato volevano essere Diane Keaton, anzi volevano essere Annie Hall, poi però assomigliano a Mary Wilke. Anch’io a volte sembravo Mary Wilke. Gallerie d’arte, cocktail in mano, piccole librerie indipendenti, Mary Wilke divide il mondo tra ciò che è geniale e ciò che “tutti sopravvalutano”, ma solo lei ha il coraggio di dirlo. Ti spiega perché Franzen è mediocre, ha sempre letto il libro dal film che stai per vedere, ti corregge quando pronunci male “didacticism”. Mary Wilke non era solo un personaggio. Era un prototipo. Un sistema operativo che si sarebbe replicato per decenni e che oggi – epoca delle Mary Wilke di massa – è all’apice della sua gloria. Taylor Swift? “Mi piace la sua prima roba, ora è commerciale.” “Succession?” “La prima stagione, poi per carità”. Qualsiasi serie Netflix di cui parlano tutti? Overrated per definizione. Mary Wilke ha appena finito un dottorato in teorie del romanzo, vanta uno stage al Post sparato sul cv come fosse il New Yorker, vive in quei post con una pila Adelphi, pieni di Ottessa Moshfegh, Rachel Cusk, Sally Rooney, la caption “Current reading situation”. Vive in ogni Substack che inizia con “Dobbiamo parlare di”.

 

Il genio di Keaton fu di non fare di Mary Wilke una caricatura. Troppo facile. Era invece una donna reale, fragile, terrorizzata dalla vita, ma sepolta sotto macerie di cultura che la facevano sentire al sicuro. Ma perché così tante ragazze volevano diventare Mary Wilke quando Mary era così chiaramente infelice? Perché dietro l’armatura culturale – dietro il cinismo, le liste degli overrated – Mary sembrava interessante. Sembrava il tipo di persona che rende una cena più stimolante, una conversazione più ricca. E in un’epoca di ansia da autenticità, dove tutti temono di essere banali, basic, prevedibili, essere insopportabili intellettualmente è un piccolo prezzo da pagare per sembrare profondi. Anche se i miei studenti non hanno mai visto “Manhattan”, Mary Wilke è l’emblema della “me generation”, la santa patrona di chiunque si considera immune alla manipolazione culturale di massa. Mezzo secolo dopo è diventata un feed infinito, sempre aggiornato. Nessuno usa più “textural” per darsi un tono, ma Diane Keaton ci aveva avvertiti: quel sussurro, quella faccia, erano la parodia perfetta di tutti noi.

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