
Cinema great again
Attualità di una distopia: l'America lacerata e violenta di P. T. Anderson
"Una battaglia dopo l'altra" è un affresco allucinato, ma anche profondamente realistico degli Stati Uniti di oggi. Sarebbe un film politico destinato ad avere una rilevanza unicamente storica, se non fosse per la maestria del regista, che ha a cuore prima di tutto la compiutezza artistica
È un’America totalmente polarizzata quella che racconta Paul Thomas Anderson in "Una battaglia dopo l’altra": da un lato suprematisti bianchi violenti e ipocriti, dall’altro rivoluzionari idealisti, cialtroni, spietati e fragili. I primi sono una versione aggiornata del Ku Klux Klan, con le magliette Lacoste al posto dei cappucci e un’utilizzazione della religione cristiana tanto esibita quanto blasfema: i membri del “Christmas Adventurers Club”, nella versione italiana I Pionieri del Natale, si salutano dicendo “Merry Christmas” in opposizione al politicamente corretto “Happy Holidays” e antepongono il raggelante “Hail” a “Saint Nick”. I ribelli risultano invece dotati ancora di umanità: Anderson li dipinge come combattenti per la libertà prima che terroristi, e non è un caso che nel film si intravedano le immagini della Battaglia di Algeri. E’ una guerra di liberazione, quella che combattono, una battaglia dopo l’altra, e anche nel loro caso è presente un elemento religioso: le monache che fiancheggiano la rivoluzione sembrano i Gruppi armati del Bambin Gesù dell’Oscuro oggetto del desiderio di Luis Buñuel.
“Ateo per grazia di Dio”, come lui stesso si definiva, il maestro spagnolo ci ricordava che i grandi poeti sono anche profeti: è quello che si può dire dello straordinario film di PTA, come ama farsi chiamare. Il suo è un affresco allucinato ma profondamente realistico dell’America odierna: ossessionati dalla purezza razziale, i Pionieri del Natale sopprimono gli immigrati mentre i rivoluzionari lottano per nasconderli e accoglierli. All’interno di un mondo degradato e sconvolto sembra che manchi quella che Richard Nixon definiva la maggioranza silenziosa, ed è questo il sintomo più evidente della grave malattia in cui versa il paese.
Se non fosse stato diretto da un regista geniale quale PTA, "Una battaglia dopo l’altra" sarebbe uno di quei film politici destinati ad avere unicamente una rilevanza storica o un papocchio indigeribile: nessun altro cineasta al mondo sarebbe stato in grado di trovare un equilibrio così perfetto tra la tragedia, la commedia, il melodramma e il film d’azione, rielaborando con libertà il romanzo Vineland di Thomas Pynchon, ambientato nell’èra reaganiana. Intendiamoci: la pellicola ha un’imprescindibile valenza politica, ma PTA ne ha a cuore in primo luogo la compiutezza artistica, e il miracolo è realizzato grazie a quello che Paul Schrader ha definito joy of filmmaking.
Racconta molto sull’America di oggi il personaggio di Steven J. Lockjaw, un colonnello violento e razzista di chiara ascendenza white trash, ossessionato eroticamente da una rivoluzionaria di colore che risponde al nome di Perfidia Beverly Hills. Interpretato da uno strepitoso Sean Penn, Lockjaw anela a far parte di quell’èlite Wasp che nella realtà odierna cancella l’assistenza medica a gente come lui e nel film arriva persino a farlo uccidere. Il clima dei nostri giorni è raccontato perfettamente dalla volontà dei ribelli di “liberare l’America dalla paura”, da un senso costante di angoscia e oppressione, e dall’incapacità di dialogo tra i gruppi contrapposti, in grado di parlare unicamente al loro interno attraverso codici demenziali che generano situazioni grottesche. Il film riesce a essere anche esilarante nelle scene con Bob Ferguson (Leonardo DiCaprio), un rivoluzionario intorpidito dall’uso di troppe droghe, e Sergio St. Carlos (Benicio Del Toro), un maestro di arti marziali che mantiene un distacco zen anche nei momenti disperati. Le loro interpretazioni sono indimenticabili, come quelle della giovanissima Chase Infiniti e di Teyana Taylor, immortalata mentre spara furiosamente con un mitra al nono mese di gravidanza: i suoi colpi sono indirizzati a tutti e a nessuno, e non c’è da stupirsi se la figlia deciderà di continuare la lotta.
Non è l’unica sequenza memorabile di un film che si fregia di un inseguimento degno di William Friedkin e una colonna sonora ipnotica di Johnny Greenwood, confermando PTA come il regista più entusiasmante della sua generazione. Se la superficie può ricordare il cinema di Tarantino per il modo in cui riesce a essere efferato e lieve, il film è imparentato in realtà con il "Dottor Stranamore" di Kubrick: il primo a sgombrare il campo dagli equivoci sulla matrice reale è stato Steven Spielberg, che ha voluto vederlo tre volte prima di definirlo “insane but wonderful”. Più modestamente io ho avuto l’impressione che da molto tempo non andassi realmente al cinema.