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Magari un'altra volta

I film? Servono per uccidere la noia o rinviarla. Fatto questo, l'arte è superflua

Mariarosa Mancuso

Nella raccolta di recensioni "Perché non ci vado più", lo sceneggiatore e scrittore Ennio Flaiano torna alle origini del cinema. "La sua crisi nasce nel preciso momento in cui, da invenzione ottica, accenna a diventare arte o filosofia”

Nel 1970 Ennio Flaiano intitola un suo articolo “Perché non ci vado più”. Sottinteso, al cinema. Oggi è tutto un “grazie no, magari un’altra volta”, i biglietti venduti calano, con la scusa delle giornate frenetiche della babysitter o dell’auto da parcheggiare è tanto più comodo stare a casa. A smanettare sulle piattaforme: davanti all’offerta smisurata può passare una serata prima di trovare la perla nella spazzatura. Ma nel 1970 no. Alla televisione di stato i film erano pochi, i canali privati (che poi avrebbero rallegrato il nostro videoregistratore) ancora dovevano nascere, per non parlare delle piattaforme. E il cinema era giovane, rispetto ai libri o al teatro. Ennio Flaiano aveva lavorato parecchio come sceneggiatore – per Federico Fellini, per Alessandro Blasetti, per Alberto Lattuada, per Mario Soldati, per Mario Monicelli, per Pietro Germi. I rapporti con i registi non erano sempre facili, era considerato un mestiere di “servizio”: in viaggio per l’Oscar toccava la seconda classe. Qui parla da spettatore, da cronista e da recensore, di film dal 1939. “Perché non ci vado più” chiude la raccolta a cura di Anna Longoni, da Adelphi con il titolo: “Chiuso per noia”.

 

Lo sentiamo subito anima gemella. Frequentare i festival ormai qualche entusiasmo lo spegne, invece di accenderlo come succedeva fino a pochi anni fa. L’idea che qualcuno si sia annoiato prima di noi, soprattutto guardando i film italiani, fa sentire meno isolati. E meno prevenuti – ma non è compito del critico spingere il prodotto locale. Nel 1939 Ennio Flaiano aveva iniziato con la rubrica “Nuovi film” sul Mondo di Mario Pannunzio. Su quelle pagine ritornerà dopo dieci anni e molte collaborazioni con varie testate L’articolo sulla crisi del cinema, uscito nel 1970, sta accanto a un articolo su “2001: Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick e a un ricordo di Totò. Gli scrivevano i dialoghi un’ora prima di cominciare a girare, e il principe attore “un minuto dopo era pronto a dire nel migliore dei modi le povere cose da noi scritte”. Il film era diretto da Roberto Rossellini, titolo “Dov’è la libertà”, Totò e Flaiano fecero amicizia, s’intende “nei limiti delle nostre due timidezze”.

 

Serviva un po’ di contorno, se no davvero sembra che siamo prevenuti verso il cinema tricolore. Ennio Flaiano elenca una serie di difetti e di impicci che i registi e i produttori (per non parlare degli sceneggiatori che lavorano dietro le quinte) si sono trascinati dagli anni Trenta a oggi. Torna alle origini, a quando gli spettatori andavano al cinema per la meraviglia delle figure in movimento. Non per i divi, non per i registi e neppure per i critici dei quotidiani. Scrive: “La crisi del cinema nasce nel preciso momento in cui il cinema, da invenzione ottica, accenna a diventare arte o filosofia”.

 

La macchina da presa conosce tutto di un attore, sostiene. E aggiunge: “Purtroppo molti nostri attori hanno modeste letture, modestissimi vizi, e immodeste ambizioni di genere economico”. Flaiano subito chiarisce, per chi lo accusa di avere troppe pretese: “Non è nostro difetto d’essere esigenti: se vediamo un filo d’intelligenza e di sincerità lo seguiamo come Teseo”. A volte è spietato: “Altro piccolo difetto dei nuovi film comici – già che ci siamo vuotiamo il sacco: presuppongono, di regola, un pubblico eccessivamente tardo di comprendonio”. Capita che le commedie siano ambientate nella verde Ungheria dell’Agro Romano. Le attrici si dividono in quelle che recitano e quelle che ingrassano. Morale della favola: i film servono per uccidere la noia o almeno per rinviarla. Soddisfatta questa condizione, l’arte è superflua.

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