FACCE DISPARI

Gianfelice Imparato, “jolly” del cinema: “Ho recitato per guardare la vita di riflesso” 

Francesco Palmieri

Da Eduardo a Scola e Monicelli, una vita di ricordi. E ora l'attore torna a teatro con un riadattamento del "Medico dei pazzi" di Scarpetta: "Sarà ambientato ai tempi della legge Basaglia".

A esplorarne la filmografia si scopre che Gianfelice Imparato, napoletano di Castellammare di Stabia, ha lavorato con i maggiori registi e attori del cinema italiano. Senza contare le serie tv e il teatro, cominciato con Eduardo De Filippo e il figlio Luca fino alla riproposizione del classico scarpettiano “Il medico dei pazzi”, diretto da Leo Muscato, con cui debutterà il 6 novembre al San Ferdinando. Eppure non c’è un tipo, non un “carattere” preciso in cui fissare Imparato, in virtù di una versatilità che gli ha permesso di prestare il viso a qualunque possibilità. A vantaggio e svantaggio di una carriera che l’anno prossimo compirà mezzo secolo, cominciata quando lui era un riottoso studente di giurisprudenza che intuì nella recitazione la scappatoia dal percorso che avrebbe reso Gianfelice un infelice.

 

In mezzo secolo s’è mai pentito?

Mai. Mi sento rispetto alla vita come Perseo con la Medusa: per non restarne pietrificato ho scelto di guardarla riflessa nello scudo, che per me è stato il teatro. Recitare mi ha dato la possibilità di capire e maturare esperienze attraverso i personaggi interpretati senza fissare direttamente il volto della Gorgone.

 

Sfuggendo alla cristalizzazione in un tipo.

Credo che ogni attore sia versatile, però alcuni vengono congelati in certi ruoli per la pigrizia dei produttori, che a sua volta ingenera pigrizia nel pubblico. Per assegnare una parte ci si affida sempre più spesso ai volti che hanno già funzionato: se un’attrice fa bene la nevrotica, o un attore è stato bravo nel ruolo del violento, li si ripropongono senza cercare altrove. Il risultato è che alcuni restano prigionieri di un personaggio. Per esempio Luca Zingaretti è dotato di grandi qualità: può cimentarsi in tutto, anche con Molière, ma non riescono a disincarnarlo dal commissario Montalbano. La pigrizia immiserisce l’offerta e il pubblico, incolpevole, s’abitua all’appiattimento.

 

Lei va in controtendenza.

Non sono incasellabile in un ruolo, anche se la riconoscibilità premierebbe di più. Preferisco lasciarmi affascinare da un personaggio nuovo come da un’ulteriore sfida. Quando ero nella compagnia di Luca De Filippo ho fatto spese della forzatura dei cliché, perché appena s’usciva dal repertorio eduardiano le cose si complicavano. Portammo in scena un magnifico “Aspettando Godot”, ma dovemmo abbreviare la tournée. Però non mi sono arreso: mi piace passare da Thomas Bernhard a Scarpetta, pure se mi torna contro.

 

Ora riprende Scarpetta con “Il medico dei pazzi”.

È un classico che molti ricordano nella versione cinematografica con Totò, ma sarà riambientato più avanti nel tempo, all’indomani della legge Basaglia, in un contesto in cui il confine tra salute mentale e follia risulta ancora più sottile. È un omaggio a Scarpetta nel centenario della morte, ma anche la testimonianza che quelle commedie sono macchine di comicità tuttora valide.

 

Lei ha esordito al cinema nel ’76 con Corbucci, poi ha lavorato con tantissimi registi tra cui Bellocchio in “Enrico IV”, Monicelli in “Facciamo paradiso” e “Panni sporchi”, Scola nel “Romanzo di un giovane povero”, ma l’elenco potrebbe continuare.

Un mucchio di ricordi belli. Bellocchio è una persona deliziosa, con un’attenzione per la luce che solo un pittore può avere. Monicelli era un burbero benefico che traeva l’ironia dal cinismo. Scola amava gli attori più di tutti: con lui quelli bravi diventavano bravissimi e i bravissimi diventavano straordinari. Prenda “Una giornata particolare”: Mastroianni e Loren superarono se stessi.

 

Nelle prime esperienze teatrali la diresse Eduardo, che non viene generalmente ricordato per mansuetudine. Conferma?

Era rigorosissimo ma con noi giovani incoraggiante. S’inferociva con chi tentava di ingraziarselo per piaggeria. Ne “La fortuna di Pulcinella” mi diede un bel ruolo in cui a un certo punto, per tirare l’applauso, dovevo fare un’uscita in tre tempi, la cosiddetta “carrettella”. Una sera l’applauso non arrivò e l’indomani Eduardo mi affrontò, sempre dandomi del ‘voi’: “I tempi erano giusti, ma sapete perché non c’è stato l’applauso? Perché sapevate che doveva venire, invece non lo dovete sapere”. Mi ricordò in poche parole una lezione fondamentale: il personaggio non deve conoscere quel che conosce l’attore.

 

C’è un personaggio che vorrebbe interpretare?

Quello che ho immaginato in un soggetto cinematografico già opzionato da una produzione: è una sorta di Chance il giardiniere in versione napoletana, uno scrittore che per una serie di circostanze involontarie sconvolge gli assetti della malavita, perché i capiclan interpretano i suoi messaggi secondo i propri codici, ricavando informazioni sottotesto di cui lui è completamente ignaro. Una storia, comunque, a lieto fine.

 

Di recente anche lei ha fatto appello ai giovani napoletani affinché tornino in città. Le è costato rimanere?

Napoli è faticosa perché permangono sacche di inciviltà, una parola che mi dispiace usare, che coniugano due tendenze apparentemente opposte: tracotanza e indolenza. Ma l’appello a tornare, o a non partire, è sacrosanto perché chi se ne va appartiene proprio alla parte sana. È chiaro che bisogna anche offrire le opportunità e gli standard di vivibilità di cui si beneficia o si beneficerebbe altrove in base alle rispettive competenze.

 

Perché non insegna recitazione?

Le scuole spuntano come i funghi: chiunque abbia fatto tre pose nella vita ne apre una. Io forse ho troppo pudore

Di più su questi argomenti: