
Carlo Fruttero nel 1953 (foto Silvio Durante, Archivio Storico LaPresse)
La notte che Fruttero dovette tradurre l'aria fritta di un appello all'Onu
Sono passati settanta anni da quando lo scrittore torinese dovette tradurre l'appello della Einaudi all'Onu dopo l'invio dei carrarmati russi in Ungheria. Non è cambiato nulla da allora
Torniamo sulla questione dell’appello cinematografaro – estorto, rubato, sconfessato, “io? Ma quando mai? Ma sarà stato il mio agente!”. Ci torniamo perché vorremmo dare un consiglio ai nostri artisti, sempre animati da buone intenzioni. Sommersi come sono da richieste di appelli, in caso di dubbio, al prossimo giro, rileggersi un delizioso raccontino di Carlo Fruttero. Sono poche pagine. Si intitola, “The Night of the Telegram”. E’ autobiografico. Siamo nel 1956, a via Biancamano, sede della Einaudi. La casa editrice più comunista d’Italia riceve la notizia che i carri armati sovietici stanno facendo shopping natalizio per le strade di Budapest. Panico. Grande agitazione negli uffici. Via vai di impiegati, redattori, attese disperate per capire la dinamica degli eventi. Come può essere – si domanda Fruttero – che “carri armati comunisti” invadano “un paese comunista, governato da comunisti, abitato da comunisti”?
Da Roma il Partito non si pronuncia. Una segretaria russa e einaudiana, forse una spia del Kgb, è convocata per captare Radio Mosca. Si cerca disperatamente Cesare Cases, il grande germanista: “Fate venire Cases! Dov’è Cases?!”. Cases potrebbe tradurre i notiziari di Radio Vienna, dove magari ci sono notizie più fresche, immediate. Nel frattempo, da Roma hanno deciso la linea: “Trattasi di controrivoluzione”. “I russi stanno facendo la cosa giusta. Le forze sane del paese si uniscono ai compagni sovietici venuti in loro soccorso”. La linea è chiara: gli insorti sono dei fascisti. Proprio come gli ucraini oggi, secondo Putin e un po’ di sinistra italiana.
Gli einaudiani però sono un po’ perplessi (“molti morti, molti arresti, molte case sventrate, ma cosa vuoi farci: quando si tratta di controrivoluzione…”). La giornata non finisce mai. Fitte telefonate, contatti, incontri segreti tra Giulio Bollati e Giulio Einaudi, finché il principe degli editori scioglie le riserve: “Ci vuole un appello all’Onu!”. Un lungo appello all’Onu che tocca a Fruttero, anglista ufficiale della casa, tradurre. E Fruttero è disperato. Gli sembra una grande scemenza. Una stronzata. Una cosa sommamente ridicola. Le tenta tutte per sottrarsi (“nella bolgia di una così grave crisi internazionale cosa gliene poteva fregare all’Onu dell’indignazione di una casa editrice torinese?”). Ma è tutto inutile. Così è deciso. L’appello va tradotto. Il telegramma inviato all’Onu. Nel testo del povero Fruttero finiscono le solite cose: “ferma condanna”, “presa di posizione”, “fiduciosa speranza”, “valori democratici”, “ripudio d’ogni violenza”, “sangue innocente”, “comune sforzo per la Patria”. Insomma, un lavoraccio (“l’aria fritta è intraducibile, ma le tentai tutte”, dice Fruttero). A fine giornata, dopo molte peripezie, dopo avere spedito il fatidico telegramma, Fruttero è esausto. E qui s’immagina il remoto impiegato dell’Onu, stanco quanto lui, la cravatta slacciata, mentre registra l’appello della casa editrice Einaudi (“cosa ne avrebbe fatto? Dove lo avrebbe messo? In archivio? Nel cestino? In quella macchina che trancia i fogli in tante striscioline?”).
Succedeva 70 anni fa. Nulla è cambiato. Al posto di Radio Mosca abbiamo Twitter, e invece di Cases che traduce, ChatGPT. Gli appelli nel frattempo sono sfuggiti di mano. L’aria fritta si è fatta irrespirabile. Anche i cliché sono peggiorati, non li traduce più Fruttero, e hanno la schwa.