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Festival del cinema di Venezia

Alla mostra di Venezia l'indignazione diventa rito: ogni anno un nemico

Andrea Minuz

Più che un gesto etico, Venice4Palestine sembra un riflesso automatico, pigro e perfettamente integrato nel glamour. Il conformismo di gruppo dei cinematografari alla ricerca del nemico sulla croisette

“Che delusione Verdone”, mi dice un amico scorrendo i nomi dell’appello pro Pal e cinematografaro per cacciare Gal Gadot e Gerald Butler dalla Mostra (che invece non verranno per conto loro). Tento di consolarlo. Gli dico che a me dispiace anche per Miriam Leone, ma ho già superato la cosa. Prova a metterti nei panni di un regista, gli dico, o anche un attrezzista, un fonico, una comparsa. Siamo a ridosso del Festival di Venezia. Il momento dell’anno più atteso. Il Superbowl del cinema italiano. Da giorni al nostro regista arrivano mail a raffica: inviti alle prime, aperitivi, interviste, incontri in laguna, rassegne, tavole rotonde sul futuro del cinema. Questo “Venice4Palestine” si infila tra una festa di Armani all’Arsenale e una performance immersiva in VR con Spritz a seguire. Non sembra neanche un appello. E poi quanti appelli per la Palestina avrà firmato da quando muoveva i primi passi sul set? Ha perso il conto. Mentre fa i bagagli per il Lido non ha tempo di leggere quello che c’è scritto (gli appelli ti fregano sempre così, come i cookie nei banner).


Si va sulla fiducia. Si salta il testo – scritto con la schwa, in orrendo italiano bambinesco da liceo occupato – e si butta semmai un occhio all’elenco di chi ha già aderito: Bellocchio, Garrone, Pietro Marcello, Martone, tutte le Rohrwacher, i D’Innocenzo brothers. Madonna ci sono tutti! Qui se non firmo finisco tra gli sfigati, i non-autori, i sospetti, i complici forse. Elio Germano te lo rinfaccia ai David, “che borghese qualunquista che sei!”. No, no. Meglio firmare. Siamo artisti. “Il cinema è costitutivamente, inguaribilmente, energicamente di sinistra”, ricordava ieri Giuliano Ferrara in un pezzo magnifico. Ma lo è anche in modo pigro, automatico, seriale. E nei festival si scatena la catarsi collettiva: prima di tutto si elegge un cattivo (a Cannes Trump, a Venezia Netanyahu e Israele), poi si trasformano divi e registi in profeti, i film in prediche e le première sul red carpet in assemblee dell’Onu. Più Gaza spopola nei festival, più la nostra Palma d’oro andrebbe al primo cineasta che cascando dal pero domandasse ai suoi colleghi, “ma come mai siamo in silenzio su Ucraina, Sudan, Nigeria e altre catastrofi umanitarie in corso?”. Il perché lo sappiamo tutti, ma non è chic ricordarlo. Ciò che infiamma gli appellanti non è Gaza ma l’uso politico di Gaza. Se i nostri artisti avessero a cuore le crisi umanitarie, allora non c’è partita col Sudan (dove la carestia va avanti da due anni e coinvolge trenta milioni di persone). Solo che il Sudan non si può usare politicamente da sinistra. Non suona bene. In pochi sanno dov’è e non ha manco un hashtag. Non è un interruttore magico come Gaza che accende i classici dell'indignazione progressista, dall’anticapitalismo alla mitologia della Resistenza. 


La comunità cinematografara, che più di ogni altra comunità culturale sconta questa dipendenza patologica dai soldi, dal glamour, dagli affari, sente un bisogno disperato di prediche anticapitaliste e vive di verità rivelate e indiscutibili: il mercato è cattivo, l’occidente una cultura disprezzabile, Israele uno stato coloniale, predatorio, razzista. Fine del dibattito. Ma come si dice a Roma, nun ce crede nessuno, o meno della metà dei firmatari. In privato, tutti adorano il lusso, i vantaggi della vita borghese, il fottuto capitalismo che a parole detestano e preferiscono di gran lunga il nostro occidente malato alla sharia. In mondi come quello del cinema le idee non si dividono in destra e sinistra (anche perché esistono solo quelle di sinistra), ma in “presentabili” e “impresentabili”. E la condanna di Hamas o la causa ucraina hanno questo problema: sono cause minori, impresentabili, out, sospette o sfigate. Perciò lasciate in pace Verdone o Miriam Leone o Martone. Il cinema si fa anche così. I festival lanciano appelli, i divi fanno i divi indignati, i registi i visionari incompresi, i critici i custodi della verità artistica. E tutti insieme denunciano il Male mentre il resto del mondo brucia in silenzio, fuori campo, in quelle zone del pianeta che non finiscono mai negli speech. Se i film sono belli, poi si perdona tutto.