
Ansa
il racconto
“Qualcuno volò sul nido del cuculo” e quel pazzo inno alla fantasia e alla libertà
Cinquant’anni fa il capolavoro di Milos Forman. Le parole del regista, che aveva conosciuto sulla propria pelle il nazismo e il comunismo. Il grande cinema americano di allora e due attori straordinari
Cinquanta anni fa, in occasione dell’uscita di Qualcuno volò sul nido del cuculo, molti parlarono della consacrazione da parte dell’industria della Hollywood Renaissance, nata sulle ceneri dello studio system grazie a un gruppo di straordinari registi: Martin Scorsese, John Milius, Steven Spielberg, George Lucas, William Friedkin, Hal Ashby, Paul Schrader, Terrence Malick, Peter Bogdanovich, Michael Cimino, Brian De Palma e Francis Ford Coppola. In quegli anni non c’era cinematografia entusiasmante come quella americana, e a questa lista va aggiunto anche Woody Allen insieme a cineasti al lavoro già da qualche anno: Robert Altman, Sidney Lumet, Arthur Penn, George Roy Hill, Mike Nichols, John Frankenheimer, Sydney Pollack e John Cassavetes. Anche Milos Forman può essere considerato parte del rinascimento hollywoodiano, sebbene abbia debuttato in Cecoslovacchia, e per poter apprezzare l’impatto culturale e politico del suo capolavoro bisogna comprendere che cosa abbia significato per lui la scelta americana. Il suo approccio nei confronti del romanzo di Ken Kesey è molto diverso da quello dello scrittore, che detestò il film al punto da dichiarare: “Hanno tolto il grande imbroglio e il complotto che è l’America” e finì per far causa ai produttori. Partendo dalla gelida protagonista femminile, Forman aveva in mente un’idea precisa: “Mrs. Ratched rappresenta il partito comunista, che mi diceva cosa potevo e non potevo fare, cosa era possibile dire e non dire, dove mi era permesso di andare e non andare e perfino quello che ero e non ero”. E’ un tema sul quale ho avuto il privilegio di discutere ripetutamente con lui, in virtù di un’amicizia nata per aver condiviso per un breve periodo lo stesso agente. Ovviamente io rappresentavo l’ultima ruota del carro e lui la punta di diamante, ma il titolare dell’agenzia, Robbie Lantz, aveva il talento di farci sentire tutti allo stesso livello.
Robbie era un ebreo tedesco fuggito poco prima della guerra, Milos un ebreo boemo che aveva scoperto la libertà negli Stati Uniti dopo aver conosciuto sulla propria pelle il nazismo e il comunismo. Era uno spettacolo vederli insieme: accentuavano l’accento europeo, per gioco e per orgoglio, e parlavano per ore di un mondo meraviglioso che tuttavia aveva generato i “mostri” che li avevano costretti a fuggire. Milos non riusciva a capacitarsi che l’uomo finisse per venerare, ancor prima che “ideologie portatrici di dolore”, un’entità astratta come lo stato: “e l’uomo stesso che lo ha creato per servirsene, ma finisce per diventarne servo”. Il padre era stato ucciso durante un interrogatorio della Gestapo e la madre era morta ad Auschwitz, ma riteneva che il comunismo fosse per alcuni versi più insidioso, per via degli ideali di giustizia sociale: “Ho il diritto di divertirmi”, diceva, con tono pieno di dolore, e “tra i primi atti che fecero sia i nazisti e i comunisti ci fu la guerra ai pervertiti e ai pornografi. Applaudirono tutti, ma nel giro di poco tempo furono considerati pervertiti Shakespeare, Hemingway, e poi persino Gesù…”. Spalancava gli occhi quando raccontava queste cose, e compresi allora perché aveva realizzato un film che difendeva i diritti di un pornografo come Larry Flynt. Quando il Cuculo uscì sugli schermi, molti critici, riecheggiando le tesi di Kesey, si affrettarono a leggerlo come una metafora della condizione esistenziale americana: una scorciatoia ideologica di assoluta cecità di fronte alla frustrazione e alla rabbia che Milos esprimeva nei confronti di un clima in cui le regole erano anteposte agli individui e ogni elemento di umanità doveva chinare la testa di fronte alla ragion di stato.
La pellicola trionfò agli Oscar con cinque vittorie su nove candidature, ed è tuttora uno dei soli tre film, insieme ad Accadde una notte e Il silenzio degli innocenti, ad aver vinto nelle categorie maggiori: film, regia, sceneggiatura, attore e attrice protagonista. Per darvi un’idea della qualità espressa allora dal cinema americano, gli altri candidati come miglior film erano: Nashville, Barry Lindon, Lo squalo e Quel pomeriggio di un giorno da cani. Nel giro di pochi anni Milos trionfò nuovamente con Amadeus, ma anche nei momenti di gloria ha continuato a mostrare disincanto per ogni ambiente caratterizzato dal conformismo e da codici precostituiti. C’era in lui un elemento di profondo individualismo, che spesso si declinava in una orgogliosa solitudine. Soffriva inoltre di una depressione che gli fece tagliare ogni rapporto con il mondo esterno nel periodo in cui abitava al Chelsea Hotel. Lesse il romanzo di Kesey in quel tempio della bohème newyorkese, e lo trovò perfetto per raccontare il clima opprimente che aveva vissuto in patria, ma era turbato dal fatto che il protagonista Randle McMurphy fosse internato per aver abusato sessualmente di una quindicenne: nel romanzo Kesey lo racconta con le attenuanti della liberazione sessuale di quegli anni, mentre gli sceneggiatori Lawrence Hauben e Bo Goldman, trattano il reato quasi di sfuggita. “Mi chiedo se abbia fatto bene a minimizzare quell’elemento”, mi disse una volta, “rischiava di annullare ogni empatia da parte dello spettatore, cosa per me determinante come il clima oppressivo al quale McMurphy si ribella”.
Si riferiva con tutta evidenza all’atmosfera della sua Praga, dove la libertà era un anelito per qualcosa di cui si era perso il ricordo e della quale invece poteva godere nel suo appartamento su Central Park: “L’ho acquistato quando giravo Hair: volevo vivere a pochi metri dal set. Tutto questo è inconcepibile per chi vive nella mia terra”. Si sentiva nel cuore del mondo e forse i grandi sigari che fumava rappresentavano un vezzo per sigillare la scelta di un paese che nei suoi film criticava con durezza. “Non esiste paradiso in terra” mi spiegò “ma qui posso farlo perché questo è un paese libero: le critiche vanno insieme alla gratitudine”. In quella stessa occasione gli chiesi come mai i suoi protagonisti fossero sempre ribelli e lui mi diede una risposta onesta e sorprendente: “Nell’intimo sono un vigliacco: quei personaggi sono proiezioni di coloro che vorrei essere e in realtà non sono”. Era stata l’invasione sovietica del 1968 a convincerlo ad abbandonare il proprio paese, ma quella decisione lo avvicinò ancora di più agli amici con cui aveva studiato sotto “un’oppressione tragica che aveva i lineamenti della demenza”: il direttore della fotografia Miroslav Ondricek, il regista Ivan Passer e il drammaturgo Vaclav Havel, che sarebbe diventato presidente della libera Repubblica Ceca. Faceva parte del gruppo anche Milan Kundera, che in un racconto narra di un personaggio che si fa passare per Milos. Per spiegare il concetto di ottusità di un regime liberticida, una volta mi ha raccontato un aneddoto su Miracolo a Milano di Vittorio De Sica, il suo film preferito: “Invece di comprendere e apprezzare la fusione mirabile di realismo e magia di quel capolavoro immortale, i grigi burocrati del regime decisero di censurare il film con la motivazione che nel finale i poveri volano verso occidente: basterebbe questo per spiegare come quella dittatura avesse ucciso non solo la libertà ma anche l’intelligenza”.
Quando cominciammo a frequentarci aveva appena smesso di insegnare alla Columbia University, dove era diventato preside della facoltà di cinema, e aveva avuto da poco una seconda coppia di gemelli dalla moglie Martina. I primi due, nati dal primo matrimonio, erano diventati artisti circensi: “Non avrei mai pensato che il mio nome fosse associato a un circo, ma Petr e Matej sono pieno di talento e passione, e il circo Forman è il più popolare del mio paese”. Alla seconda coppia di figli decise di dare i nomi di Andrew e James in onore di Andy Kaufman e Jim Carrey: Man on the moon è uno dei film che prediligeva, come anche The People Vs. Larry Flint, e non si capacitava che non avessero avuto lo stesso successo delle sue opere più celebri. Quando parlava di Amadeus diceva che “siamo tutti, nessuno escluso, dei Salieri” e che non c’è “nulla di meno definibile della follia, come ho cercato di raccontare nel Cuculo”. Anche per questo era ossessionato dal personaggio di Mrs. Ratched, che fonda il proprio potere sulla paura: “E’ la degenerazione di tutto ciò che ci rende umani” spiegava, ed è significativa una differenza apparentemente impercettibile rispetto al romanzo, dove viene chiamata unicamente con il cognome. Nel film sappiamo invece che si chiama Mildred: per quanto algida e odiosa, è un essere umano come tutti, che ha perso la propria umanità nell’obbedienza implacabile a regole che negano in primo luogo la gioia di vivere. Poche attrici al mondo sono identificabili con un unico ruolo quanto Louise Fletcher, perfetta sacerdotessa di una religione senza luce e senza Dio, la quale, per immortalare Mrs. Ratched rinunciò a Nashville, mentre Lily Tomlin, scelta in origine, finì per recitare al suo posto nel film di Altman. Oggi appare inconcepibile pensare al Cuculo senza di lei ma Louise Fletcher venne scelta dopo che erano state prese in considerazione numerose alternative, a cominciare da Jane Fonda, Jeanne Moreau e Angela Landsbury, che Milos aveva apprezzato in un ruolo ugualmente raggelante in The Manchurian Candidate.
Per il personaggio di McMurphy aveva invece un debito d’onore con Kirk Douglas, che aveva opzionato i diritti del libro di Kesey e ne aveva interpretato la versione teatrale di Dale Wasserman insieme a un giovanissimo Gene Wilder. Innamorato del romanzo, aveva inviato il testo a Milos dopo aver visto Gli amori di una bionda, intuendo che era il regista perfetto. Il libro però venne bloccato dalla censura cecoslovacca, che lo aveva giudicato pericoloso e profondamente eversivo. Ignorando quanto era successo e offeso per l’assenza di una risposta, Kirk Douglas cedette i diritti al figlio Michael, il quale si associò a Saul Zaentz per realizzarlo come produttore. In un primo momento pensarono di affidare la regia a George Roy Hill, poi a Hal Ashby, e solo come terza scelta optarono per Milos, che nel frattempo si era messo in luce in America con Taking Off. Milos caldeggiò Jack Nicholson per il ruolo di McMurphy, dopo che erano stati presi in considerazione Burt Reynolds, Marlon Brando, Steve McQueen, Gene Hackman, James Caan e John Voight. Quando Kirk Douglas apprese di essere stato sostituito rimase malissimo, soprattutto quando scoprì che il figlio aveva convenuto con Milos che non era più giovane per quel ruolo e aveva perso l’appeal al botteghino. “Chiesi a Michael di avvertire Kirk”, mi confidò con un po’ di imbarazzo, “il quale mi telefonò dicendomi voglio soltanto insegnarti un’espressione americana: son of a gun”. Jack Nicholson ricambiò la fiducia, consegnando una delle interpretazioni più memorabili della storia del cinema, e fu lui ad avere l’idea della danza indiana. Vinse l’Oscar battendo di misura Al Pacino in Quel pomeriggio di un giorno da cani, e finì per guadagnare una fortuna legando il proprio compenso agli incassi del film: quando ritirò la statuetta ringraziò Mary Pickford, la prima star ad aver ottenuto un contratto di quel tipo.
Insieme ad alcuni pazienti dell’Oregon State Hospital, realmente afflitti da disturbi mentali, Milos inserì nel cast attori professionisti come Christopher Lloyd, Danny DeVito, Will Sampson e Brad Dourif, e si entusiasmò a lavorare con interpreti che lo sbalordivano per qualità e duttilità. Per ottenere un effetto verità girò numerose sequenze senza che gli interpreti se ne accorgessero, e si divertì a nascondere nel film qualche riferimento alla sua terra d’origine, come il termine Hovno, pronunciato durante una partita a carte: sembra il borbottio incomprensibile di una persona con disturbi mentali, ma è il corrispondente boemo di “merda”.
Fu durante quelle riprese che Milos si rese conto che il cinema hollywoodiano rappresentava uno dei modi in cui veniva declinata la libertà del paese che lo aveva accolto: tra i film fondamentali della sua vita citava opere quali Quarto potere, American Graffiti, Il cacciatore, Toro scatenato e Il Padrino. Non c’era mai nulla di intellettualistico nelle sue scelte, ed è proprio in virtù di questo spirito di libertà che si è appassionato a progetti lontani dalla sua sensibilità, come Basic Instinct, che avrebbe dovuto dirigere prima che la major preferisse Paul Verhoeven, più affidabile da un punto di vista commerciale. Non c’era scelta professionale che non condividesse con Martina, la moglie della maturità, che gli è rimasto accanto sino alla fine: nessuna come lei riusciva a smussare ogni sua durezza, ed era sorprendente la tenerezza con cui la corteggiava dopo molti anni di matrimonio. Una sera a cena scherzò sul fatto che il Cuculo fosse il film preferito di personalità diversissime come Barack Obama e Akira Kurosawa, e poi chiese al marito quali fossero le scene di cui fosse maggiormente fiero. Milos raccontò la sequenza in cui Jack Nicholson improvvisa una telecronaca immaginaria dopo che Mrs. Ratched impone di spegnere la televisione in obbedienza a regolamenti assurdi e liberticidi. E’ un momento di grandissimo cinema, nel quale Milos celebra l’intuizione di Chesterton, secondo cui “pazzo è colui che ha perso tutto, tranne la ragione” e racconta in maniera struggente che l’immaginazione e la fantasia possono superare ogni forma di oppressione.
E’ impossibile non rimanere incantati dalla potenza ribelle di McMurphy in quel momento, ed è la sequenza in cui il film rivela in pieno la celebrazione dell’individualismo americano, esattamente l’opposto di quello che alcune recensioni dell’epoca volevano suggerire. Milos però non aveva esaurito la sua risposta e volle citare anche la scena di Amadeus nella quale Mozart morente detta il Requiem a Salieri, e quest’ultimo capisce, con un misto di odio, ammirazione e invidia, quanto sia geniale e superiore il suo rivale. “Confutatis maledictis. Flammis acribus addictis. Voca me cum benedictis,” intonò Milos, come se stesse dirigendo ancora la sequenza, poi concluse: “Nella prima scena ho celebrato la libertà, nella seconda l’arte: due facce della stessa medaglia”.

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