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Ritorno al film. Una DeLorean contro le fantasie della politica attuale
Guardare “Back to the Future” con Reagan negli anni 80, quando la libertà e la forza per costruire il proprio destino erano concetti chiari
Ognuno ha il passato che si sceglie. Se la storia è ciò che un’epoca ritiene rilevante di un’altra, come ce la raccontiamo fa la differenza. Non tanto per il passato, che è passato. Ma per il modo in cui, alla sua luce, proviamo a leggere il presente. Cerchiamo sempre uno specchio in cui vedere i noi stessi che vorremmo. E qui viene utile la storia, che è un elenco di fatti e l’immaginazione che serve per cucirli assieme.
Nel luglio di quarant’anni fa arrivava in sala “Ritorno al futuro”, regista Robert Zemeckis, produttore Steven Spielberg, la trama è nota. Un gentleman scholar che si dedica alla scienza, credenziali accademiche zero, ha trasformato una DeLorean in una macchina del tempo (se la macchina del tempo dev’essere un’auto, tanto vale che sia una bella auto). Siccome ha commesso l’imprudenza di farsi finanziare, senza informarli, da alcuni terroristi libici (il nemico del momento è Muammar Gheddafi, che gli Usa bombarderanno l’anno dopo), va a finire che nel tempo non viaggia lui, ma un adolescente che sa a malapena che Einstein non era un trombettista jazz. Il ragazzo con lo scienziato ha per ragioni sconosciute stretto un’amicizia sincera (secondo il co-sceneggiatore, Bob Gale, oggi il film non si potrebbe girare, qualcuno ci annuserebbe un’amicizia omoerotica). La DeLorean porta il giovane indietro di trent’anni, alla notte in cui “Doc” Emmett Brown, il nostro inventore vittoriano fuori tempo, ha sbattuto la testa in bagno e ha avuto la visione del “flusso canalizzatore”, l’apparato che serve a beffare gli orologi.
Nel 1955 alla Casa Bianca c’è Dwight Eisenhower, eroico generale della Seconda guerra mondiale, e a “Doc” pare impossibile che al suo posto, trent’anni dopo, sieda Ronald Reagan. Il giovane Marty McFly, appena giunto nel 1955, passa di fianco a un cinema che ha in cartellone il western “Cattle Queen of Montana”, in italiano “La regina del Far West”, protagonista proprio il futuro governatore della California. Reagan ha vinto le elezioni promettendo un anticomunismo vigoroso e tagli alle tasse. Eisenhower praticava il conservatorismo della prudenza. Aveva ricevuto in eredità da Truman un bilancio con un deficit di 9,9 miliardi di dollari (il pil americano navigava attorno ai 380 miliardi): riuscì a dimezzarlo il primo anno. Ridusse la spesa del governo federale da 74 miliardi di dollari nel 1953 a 67 nel 1954 e 64 nel 1955.
“La sua principale ossessione, dalla quale discendevano tutte le altre politiche, era pareggiare il bilancio. Un deficit di bilancio rappresentava una forma di debolezza, sia morale che politica. E i deficit, ne era convinto, producevano inflazione che lui considerava alla stregua di una forma di furto: la rapina del valore di risparmi guadagnati col sudore della fronte. (…) Nel gennaio del 1955 Eisenhower propose al Congresso un bilancio in pareggio per il 1956 – un’incredibile inversione di rotta nelle fortune fiscali del paese. Buona parte dei tagli fu resa possibile dalla fine della guerra di Corea, per cui Eisenhower si era impegnato, e dalle conseguenti riduzioni di personale statale, sia militare che civile”. La spending review coincise con una recessione, nel 1954, la disoccupazione arrivò al 5 per cento. Eisenhower riteneva “che proprio un bilancio in pareggio avrebbe alla fine offerto le condizioni per la ripresa” (così lo storico William Hitchcock, in The Age of Eisenhower, 2018). Poiché aveva così a cuore l’obiettivo dell’aggiustamento fiscale, Eisenhower non era particolarmente propenso a ridurre le imposte sul reddito, nonostante lui e il suo partito l’avessero promesso. Viene spesso ricordato come l’aliquota massima dell’imposta sul reddito fosse elevatissima: il 91 per cento. L’avrebbe tagliata con una manovra keynesiana, di “stimolo” all’economia, John F. Kennedy. Non si rammenta altrettanto spesso che all’epoca però anche le fasce più umili della popolazione pagavano le tasse, con aliquote fra il 20 e il 26 per cento. Non esisteva ancora quella vasta classe di non contribuenti che sono stati creati da tagli alle imposte sia di destra che di sinistra, e che costituisce oggi, in qualsiasi paese del mondo, la più formidabile constituency a favore di una spesa pubblica che non è chiamata a finanziare.
Nel ’55 c’è Eisenhower, e a “Doc” pare impossibile che al suo posto, trent’anni dopo, sieda Reagan, allora attore di film western
Uno dei riti di Reagan alla Casa Bianca era trovarsi con alcuni dei collaboratori più stretti a guardare un film, il sabato sera. Tre settimane dopo l’uscita al cinema, a Camp David si proietta “Back to the Future”. Mark Weinberg, uno degli speechwriter del presidente, ricorda come in sala ci fu un minuto di gelo, quando Doc Brown, sempre esprimendo tutto il suo stupore all’idea di un attore come presidente (ecco spiegato lo “studio televisivo portatile”, la telecamera, di Marty: gli anni Ottanta saranno la civiltà dell’immagine), ipotizza che first lady sarà dunque Jane Wyman, alla quale Reagan era allora legato, un matrimonio per niente felice a differenza di quello, successivo, con Nancy. E tuttavia a Reagan il film piacque, e parecchio, gli ricordò l’età d’oro di Hollywood, quella dei buoni che sono buoni e dei cattivi che sono cattivi. Il film stende un filo rosso fra l’epoca di Ike e quella di Ronnie. Da una parte, è una difesa ragionevole dei valori tradizionali: che non è male come definizione del conservatorismo dell’uno e dell’altro. La famiglia è al centro sia della pellicola del 1985 che delle due successive.
Il gelo in sala quando nel film si cita Jane Wyman, ex moglie del presidente. Ma il film gli piacque, una difesa ragionevole dei valori tradizionali
Lo scopo del viaggio del tempo è la scienza per la scienza: si-può-fare. Ma per come lo vive non Doc bensì Marty, è un’avventura per salvare la sua famiglia. Con un paio di mosse lì per lì disastrose quanto a posteriori provvidenziali, non solo la salva, ma la migliora, e nel mentre la conosce un po’ di più. Suo padre non era destinato a essere lo smidollato che è stato, bastava che qualcuno gli dicesse la parola giusta al momento giusto. Sua madre dispensa prediche e sospetti, ma quand’era adolescente lo era alla stessa maniera in cui lo sarebbero stati i suoi figli: voleva uscire la sera, fumare qualche sigaretta, “parcheggiare” con un ragazzo carino. La retorica della vostra famiglia potrà sembrarvi odiosa, suggerisce Zemeckis, ma i vostri genitori sono stati ragazzi come voi. Proprio per questo è difficile battere in flessibilità adattativa un’istituzione che sopporta le trasgressioni e le ricompone nel segno di un affetto più forte del tempo. Tenetevela cara.
La retorica della vostra famiglia potrà sembrarvi odiosa, suggerisce il regista Zemeckis, ma i vostri genitori sono stati ragazzi come voi
In generale, gli anni Cinquanta di “Ritorno al futuro” non sono un quadro a tinte pastello, c’è il ragazzo di bottega di colore che trent’anni dopo sarà sindaco e che all’epoca può solo ramazzare per terra. Sono però raccontati nel segno di una semplicità, di una freschezza, che è esattamente quello che l’oratoria reaganiana cercherà di restaurare. “It is morning in America”, è di nuovo mattino in America: quattro anni dopo Carter le nubi all’orizzonte si sono dissipate e siamo pronti per il meglio che deve ancora venire. La fine del comunismo per il presidente era importante quanto la fine della proliferazione nucleare, per la quale stringerà qualcosa di più di una anodina collaborazione col suo dirimpettaio del Cremlino, Mikhail Gorbaciov.
Il futuro al quale Marty vuole tornare è quello di una gita al lago con la sua Jennifer senza mamma e papà a rompere le scatole, ma è anche un tempo di ottimismo, pronto a offrire tutto quel che serve per vivere un’avventura pacifica. Gli anni Cinquanta nei quali è finito sono anch’essi un serbatoio di fiducia e speranza, la sua adolescenza si specchia in quella dei suoi, per tutti il domani è un luogo da visitare. L’America di Ike è uscita dalla sua ultima guerra, ha ripreso fiato, ha voglia di fare e di star meglio. A Marty capita di assistere all’arrivo nella casa dei nonni del loro primo televisore e gli scappa per errore di averne due, a casa propria. “Vi sta prendendo in giro, nessuno ne ha due”. Se negli anni Settanta gli Stati Uniti temono di aver perso il treno della prosperità, nel 1985 lo hanno già riacciuffato.
Nell’episodio successivo, ambientato trent’anni più tardi ovvero nel 2015, gli anni Ottanta appariranno come un cimelio ben conservato e implicitamente il momento nel quale è decollata una nuova economia tecnologica. La stessa che ha portato il mondo di Zemeckis e non il nostro ad avere automobili che volano. Nel discorso sullo “Stato dell’Unione” del febbraio 1986, Reagan citerà l’ultima battuta di Doc Brown in “Ritorno al futuro”, prima che la DeLorean prenda il volo. “Non c’è mai stato un tempo migliore nel quale vivere, un’epoca di grandi meraviglie e imprese eroiche. Come dicono nel film ‘Ritorno al futuro’, ‘Dove stiamo andando non c’è bisogno di strade’”.
Quest’ottimismo sottende una visione della storia agli antipodi rispetto a quella, deterministica, che piace tanto ai costruttori di sistemi. Marty non è un grande uomo, di quelli la cui biografia, secondo Carlyle, è tutto quel che serve per fare la storia. E’ un ragazzino pieno di difetti, cui salta facilmente la mosca al naso e che non ha paura di rischiare la ghirba per le persone che ama, ma non vincerà il Nobel né diventerà senatore. Però il suo futuro è definito dalle sue azioni, non da quelle di altri. In ogni momento, le cose possono andare in una direzione oppure nell’altra. Le persone che occupano il micro-spazio della vita della cittadina fittizia di Hill Valley sono legate assieme l’una all’altra; Lorraine Barnes, la mamma di Marty, è sempre contesa fra il marito George e il suo antagonista Biff Tannen. Ma anche se si tratta di un lembo di terra con una manciata di abitanti, “Ritorno al futuro” suggerisce che ha poco senso confidare in una qualsiasi idea di destino e che, se i grandi fenomeni storici sono l’esito della somma delle azioni di miliardi di individui, non per questo quegli individui sono intercambiabili: ciascuno di loro ha un volto, delle speranze, delle idee, degli affetti. Perciò gli ammonimenti di Doc Brown ad astenersi dall’interferire “col continuum tempo-spazio”, cioè dal provare a dare una mano alle persone che si incontrano in un tempo che non è il proprio, vengono trascurati in primis da lui. Perché questa dimensione individuale e umana della storia, per cui non c’è nulla che sia davvero più grande delle miserie e dei batticuori dei singoli, richiede al viaggiatore nel tempo di esercitare il suo senso morale. La storia non è un’equazione impenetrabile, è tanto “scienza” quanto è letteratura, per provare a capirci qualcosa bisogna ragionare come romanzieri più che come scienziati, fare l’esperimento di mettersi nei panni degli altri, che poi è precisamente quello in cui consiste il viaggio nel tempo. Il racconto dei fatti non può prescindere da questa simpatia.
Per ragionare sulla storia, che non è un’equazione, bisogna mettersi nei panni degli altri: ciò in cui consiste precisamente il viaggio nel tempo
Anche questa visione della storia è coerente con i tempi nei quali il film fu scritto e andò nelle sale. Un momento storico nel quale agli individui si apriva innanzi un nuovo ventaglio di possibilità. E in cui il farne uso, di queste possibilità, era inteso come qualcosa che inevitabilmente si accompagnava a una responsabilità rigorosamente individuale. La storia non era un campionario di torti da risolvere, di errori da aggiustare, e nemmeno una lunga salita alla fine della quale ci attendeva, finalmente, la linea d’arrivo. La storia era tante storie, tante avventure, sta a ciascuno prendere faticosamente le misure alle circostanze e agli eventi, cercando non necessariamente la grandezza ma forse la tranquillità, un granello di felicità, la ragionevole aspettativa che l’anno prossimo si guadagnerà di più che l’anno passato. Insomma, cose che dal punto di vista delle Grandi Tendenze sono inezie e che invece da quello dell’individuo sono, semplicemente, la vita.
Una società liberale deve pensarsi così. Deve immaginare una frontiera (e infatti Doc e Marty concluderanno la loro cavalcata nel vecchio West), deve tenere aperta la porta dell’inesplorato e dell’inimmaginato. La libertà non ha valore se la storia è scritta e men che meno ne hanno gli individui, pedine mosse da un ente superiore o da “grandi forze impersonali” onnipotenti esse pure. In questo gli anni Ottanta di Reagan trovarono il passato di cui avevano bisogno negli anni Cinquanta di Eisenhower. Non sentivano il bisogno dell’epica posticcia della Seconda guerra mondiale, gli stava bene un tempo in cui l’eroe (Ike, appunto) aveva abbondato i campi di battaglia, volevano un mondo in cui la frenesia delle persone si manifestasse in momenti e sforzi pacifici, in cui ciò che andava rivisto se non distrutto erano forse certe abitudini, ma con l’obiettivo di crearne di migliori.
Che differenza con i tempi nostri, in cui la fantasia dei politici si fissa su eroismi irripetibili e anche i consiglieri comunali s’immaginano Churchill ne “L’ora più buia”, ignorando le condizioni di contorno e soprattutto fissandosi su un vocabolario di guerra anche se si parla di tutt’altro. Gli individui sono di nuovo formiche, travolti da un discorso pubblico in cui sembrano contare solo i grandi della terra (i grandi uomini sono invariabilmente uomini malvagi, diceva Acton). E le storie che vanno per la maggiore, cieche alle speranze operose dei singoli, sono un allenamento al sospetto. Il Doc Brown del 1955 apprendeva con stupore che trent’anni dopo “tutte le cose migliori sono fatte in Giappone”. Oggi sparerebbe al manufatto d’importazione, e al futuro che rappresenta.