Sky Movies Premier promuove la prima proiezione in assoluto di "Lo Squalo" di Spielberg in HD al London Aquarium (Gareth J Davies/Getty Images) 

il film

Lo Squalo a cinquant'anni dalla sua uscita continua a terrorizzare e affascinare gli spettatori

Andrea Minuz

Il film di Steven Spielberg ha ridefinito per sempre il concetto di blockbuster estivo e trasformato la paura ancestrale del mare in fenomeno culturale. Nato tra mille difficoltà, proprio dai suoi limiti ha tratto la forza per diventare leggenda

Mentre scrivo questo pezzo sto comprando su Internet una t-shirt con la scritta in font retrò “Amity, 1975”, l’isola di fantasia dove è ambientato “Lo squalo”. Una t-shirt che non metterò mai, avendo superato l’età per sfoggiare magliette con scritte, e che finirà nella mia collezione disordinata di “Jaws memorabilia”, tra tazze, cartoline, altre magliette, cappelli, sottobicchieri, pupazzi, giochi da tavolo, infradito, vinili con la colonna sonora di John Williams, locandine giapponesi, edizioni di “The Jaws Log”, in cui Carl Gottlieb racconta la lavorazione del film, uno dei due o tre libri di cinema che si dovrebbero leggere almeno una volta, come l’intervista di Truffaut a Hitchcock. Confesso la mia passione disdicevole per “Lo squalo”. Ho davvero perso il conto delle volte che l’ho visto in tv, in vhs, dvd, blu-ray, su Prime Video, al cinema, in un’arena, su un grande schermo in un festival estivo, sempre tirando un sospiro alla fine, quando Roy Scheider finalmente lo fa saltare in aria e ci libera dall’incubo. “Lo squalo” mi ha letteralmente terrorizzato quando ero bambino, facendo schizzare al primo posto nella hit-parade dei peggiori-modi-in-cui-si-può-morire la possibilità di essere mangiati in acqua. Cosa che trovavo e trovo ancora particolarmente umiliante oltre che orribile.

Appartengo a quella generazione nata negli anni Settanta che all’improvviso, per colpa di Spielberg, in un’età compresa tra i sette e i dieci anni, smise sistematicamente di farsi il bagno al mare, non importa dove, a Cesenatico come a Minorca, a largo o vicino la riva, sul bagnasciuga, e nel mio caso per qualche anno anche in piscina (ne “Lo squalo 3”, sceneggiatori un po’ a corto di idee gli facevano sfondare il vetro protettivo di un parco acquatico a caccia di turisti da mangiare). Oggi terrorizzo i miei figli piccoli. Cinquant’anni dopo, “Lo squalo” funziona ancora. Li inchioda davanti alla tv. Il profilo della pinna che esce dall’acqua, le due note basse di John Williams, quel ritmo ossessivo che per tutti è diventato il suono di una paura ancestrale, della minaccia che non vedi ma che è proprio lì a un passo da te, è entrato in testa anche a loro. La stagione è appena iniziata: vedremo se quest’estate entreranno in acqua senza esitare oppure no. Come Hitchcock ha reso la doccia un luogo insicuro e minaccioso, “Lo squalo” ha cambiato per sempre la nostra idea spensierata di farsi un tuffo dove l’acqua è più blu.

  

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Per noialtri fanatici, questo non è un fine settimana come un altro perché “Jaws” – che in inglese suona bene ma in italiano significa “ganasce” o “mascelle” o “fauci” e per fortuna fu tradotto in un più asciutto e diretto “Lo squalo” – usciva al cinema il 20 giugno del 1975, in quella che per tutti divenne “l’estate dello squalo”. In quel weekend, “Jaws” cambiò le regole del gioco a Hollywood, aprì un nuovo mercato e un filone pressoché inesauribile di film su mostri marini più o meno improbabili e sempre più trash, e spianò la carriera di un giovane regista all’epoca venticinquenne. “Spielberg aveva venticinque anni quando iniziarono le riprese di ‘Jaws’”, dice Carl Gottlieb, sceneggiatore del film, “e circa centouno quando finirono”. Perché se è vero che girare un film è sempre un’avventura rocambolesca, la produzione di “Jaws” resta una della più incredibili di Hollywood: un’impresa partita male, proseguita peggio, e che sino alla fine sembrava votata al fallimento. 

 

Un’impresa che fino alla fine sembrava votata al fallimento. Gli squali meccanici che si rompevano e il colpo di genio: non farli vedere


Gli eroi di questa storia sono tanti. Il primo è Peter Benchley. All’inizio degli anni Settanta lavora come freelance per il Washington Post ma non se la passa bene. Ha un paio di proposte in mente per un libro con Doubleday. La prima è un saggio sui pirati. L’altra un romanzo ambientato su un’isola dove c’è anche uno squalo killer (Benchley ha studiato, si è documentato con ricerche meticolose sul comportamento degli squali, si è ispirato alle gesta di Frank Mundus, pescatore di Montauk, New York, alla base del personaggio di Quint, che nel film sarà interpretato da Robert Shaw). Doubleday scarta i pirati e dà una chance allo squalo. Benchley spedisce quattro cartelle. C’è la scena con l’uccisione di una ragazza mentre fa il bagno di notte, l’avvio di una trama sentimentale e una vicenda di corruzione politica che coinvolge vari personaggi dell’isola. La proposta è accettata. Nell’estate del ‘73, Benchley consegna una versione definitiva del romanzo. Se vi è capitato di leggerlo, saprete che lo squalo resta abbastanza sullo sfondo, i personaggi sono un po’ stereotipati, insomma è un romanzo un po’ datato. Senza il film di Spielberg in pochi oggi si ricorderebbero di “Jaws”. Ma la vita di Benchley e la nostra percezione degli squali stanno per cambiare per sempre (preso da un senso di colpa oppure di riconoscenza, negli ultimi anni della sua vita Benchley diventerà poi un attivista degli oceani, molto impegnato nella protezione degli squali).

  

“Jaws (“mascelle”, “fauci”) è tratto da un bestseller di Peter Benchley del ’73 e diventa il prototipo del blockbuster estivo

  
I produttori David Brown e Richard Zanuck, legati alla Universal, si interessano al libro mentre è ancora in lavorazione. Gli è arrivata una soffiata dalla redazione di Cosmopolitan, dove lavora Helen Brown, moglie di David. Qui gira un foglietto con il riassunto della trama e un appunto: “Potrebbe essere un grande film!”. Nel 1974 “Jaws” diventerà un bestseller ma in quel momento il libro non è neanche andato in stampa. Zanuck e Brown decidono di correre il rischio. Forti dei sette Oscar che hanno appena vinto con “La Stangata”, comprano i diritti a scatola chiusa. Iniziano i primi colloqui per capire a chi affidare il film. Pensano a un thriller/horror con un budget contenuto, ma non trovano nessuno che li convinca. Steven Spielberg, da poco sotto contratto con la Universal e col secondo film (“Sugarland Express”) ancora in post-produzione, non rientra nei loro piani. Spielberg però trova una bozza del libro negli uffici della produzione, chiede di poterlo leggere e il giorno dopo si candida per girarlo. Un giovane sconosciuto sembra perfetto per non spendere molto. Ma ecco che salta fuori il primo problema: Zanuck e Brown sono convinti di poter realizzare il film con uno squalo ammaestrato da far scodinzolare nelle piscinone della Universal. Hanno in mente “Lassie”, “Furia”, “Rin Tin Tin”. Quando gli spiegano che, per quanto a Hollywood tutto sia possibile, non esistono al mondo ammaestratori di squali, pensano di mollare il progetto e rivendere in fretta i diritti, prima di diventare lo zimbello degli studios. Spielberg però ha una proposta, anzi due: costruire un modello a grandezza naturale di un enorme squalo bianco meccanico e poi, se davvero si vuole terrorizzare il pubblico, girare il film nell’oceano, anziché in una cisterna. L’epoca delle piscinone che si usavano nei vecchi film dei pirati è finita. Due proposte che a Zanuck e Brown appaiono completamente folli oltre che fuori budget. Solo che nel frattempo il libro di Benchley è diventato un bestseller. Sarebbe ancora più folle cedere ora i diritti. E allora il film si farà. Proviamo a fare come dice questo ragazzino. Male che va abbiamo ancora i guadagni della “Stangata”.
 
 
Quando a Hollywood bisogna fare qualcosa che nessuno ha mai fatto prima ci si rivolge alla Disney. Lo squalo, anzi “gli” squali (tre modelli scala uno a uno per le riprese frontali e laterali) li costruisce la squadra di Robert Mattey, quello del calamaro gigante di “Ventimila leghe sotto i mari”, dei voli di Mary Poppins, dei trucchi di “Pomi d’ottone e manici di scopa”. Il budget del film lievita. Zanuck e Brown sono preoccupati. Non hanno il tax credit del ministero per rientrare di tutte le spese. Gli squali meccanici vengono fabbricati tra il novembre del 1973 e l’aprile del 1974 alla Motion Picture & Equipment Rental di Rolly Harper a Sun Valley, California. Se cercate su Google c’è una foto magnifica di Ingmar Bergman in estasi mentre accarezza il pupazzone di gomma (scattata però dopo l’uscita del film, quando rimettono a posto gli squali nei container). Una volta finiti, i tre squali telecomandati vanno trasportati con dei tir dalla parte opposta degli Stati Uniti, a Martha’s Vineyard, isolotto vicino Cape Cod dove Obama festeggia i compleanni, luogo scelto per le riprese del film. Qui sorvoliamo su uno sciopero dei trasporti che blocca i tir con gli squali in mezzo al nulla degli Stati Uniti centrali, sennò facciamo notte. Fatto sta che gli squali arrivano tardi.

  

Spielberg a cavallo di uno degli squali meccanici, soprannominato “Bruce”: era il nome dell’avvocato del regista (foto Getty) 
    

Non c’è tempo di provarli. Bisogna girare in fretta, bisogna sfruttare l’onda lunga del bestseller. E appena entrano in acqua gli squali non funzionano. Nessuno dei tre. Si inabissano di continuo, vanno in cortocircuito, restano con le fauci spalancate, insomma non rispondono bene ai comandi. Spielberg, che è pur sempre un ragazzino di venticinque anni, si ritrova a gestire l’incazzatura di Zanuck e Brown che piombano sul set. Avevano in mente un piccolo film da fare in fretta e invece si ritrovano su un’isola, con tre squali telecomandati giganti che non funzionano. “Jaws”, peraltro, era un film senza star. Nessuno dei tre attori ingaggiati, Roy Scheider, Robert Shaw, Richard Dreyfuss, era un nome di richiamo per il pubblico. La star, quella su cui tutti puntavano, era “Bruce”, come Spielberg e la troupe presero a chiamare lo squalo sul set (Bruce era il nome dell’avvocato di Spielberg). Spielberg o qualcuno intorno a lui ha l’idea che cambia tutto: se lo squalo non funziona, non lo faremo vedere.

 

Gli Oscar alla colonna sonora di John Williams e al montaggio di Verna Fields, che dopo “Jaws” sarà una delle prime donne dirigenti a Hollywood

 

Se vi riguardate il film noterete che “Bruce” spunta fuori dall’acqua dopo oltre un’ora. I primi attacchi sono tutti costruiti con effetti di montaggio, stacchi rapidi, soggettive dello squalo che punta la propria vittima e, va da sé, con le note di John Williams che suggeriscono la presenza del mostro (non a caso i due Oscar del film andranno alla colonna sonora e al montaggio di Verna Fields, che dopo “Jaws” sarà nominata vicepresidente del settore “Feature Production” della Universal, diventando una delle prime donne a occupare un ruolo dirigenziale negli studios). “Se avessimo realizzato ‘Jaws’ nel 2005”, dirà poi Spielberg, “mi sarei affidato al digitale e lo squalo comparirebbe più spesso. In questo modo avrei completamente rovinato il film. Il fatto che lo squalo non funzionasse, trent’anni fa, fu la mia salvezza”. Poche cose terrorizzano come le minacce che non vediamo e “Jaws” si sintonizza sulla più ancestrale delle paure. Anche Zanuck e Brown però tirano fuori nuove idee: per la prima volta un film usciva in contemporanea in tutto il paese in oltre quattrocento copie, sfruttando in modo inedito la stagione estiva. Per la prima volta, la pubblicità puntava tutto sulla tv con una campagna martellante partita mesi e mesi prima. E poi c’era quel manifesto, già pensato per i meme prima dei meme. Lo disegna Roger Kastel, illustratore di New York, collaboratore di varie riviste. Gli editori non erano soddisfatti del disegno stilizzato comparso nella prima edizione del romanzo di Benchley, con lo squalo che sembrava un Barbapapà. Kastel opta per un maggior realismo. Va al museo di storia naturale di New York, scatta un po’ di fotografie ai calchi in gesso degli squali. Quel giorno aveva appuntamento con una modella che avrebbe dovuto ritrarre per “Good Housekeeping”. Le chiede di mettersi in posa su uno sgabello, fingendo di nuotare. Il resto lo conoscete.

 
La silhouette aggressiva di “Bruce” che punta la sua vittima viene progettata per diventare un brand da riprodurre in un’infinità di gadget e prodotti. Qui Zanuck e Brown fanno un’altra scoperta, quella che cambia la storia di Hollywood: nonostante gli incassi record, “Jaws” fa ancora più soldi con il merchandising e poi con il “Jaws Ride”, la giostra per turisti negli Universal Studios, inaugurata il 10 aprile 1976. Nasce con questo film l’idea di blockbuster così come la conosciamo oggi. “Jaws” diventa un fenomeno di costume come mai si era visto sin lì. La psicosi dello squalo contagia tutti. Tra i fan del film c’è anche Fidel Castro, che lo legge come un’allegoria del capitalismo predatorio (lo squalo come castigo divino per l’America, una società avida, egoista, individualista). Le femministe vedono invece in “Bruce” l’esemplificazione della “vagina dentata” di Freud. “Jaws” è uno dei primi oggetti della cultura pop a essere preso sul serio da accademici e intellettuali che lo usano naturalmente quale simbolo di un’industria dell’entertainment che annulla la coscienza di classe dello spettatore proponendogli “un Moby Dick piccolo-borghese” (eppure se da adulto ho finalmente apprezzato il capolavoro di Melville è proprio perché “Lo squalo” gli ha spianato la strada). I “Cahiers du cinéma”, all’epoca in pieno trip maoista, scrivono che è un film per deficienti. Il successo inaudito di “Jaws” fa tornare di corsa molti critici a rivedere i giudizi su Spielberg, all’epoca ancora lusinghieri verso i suoi due primi film “Duel” e “Sugarland Express”, piccoli, personali, un po’ controculturali come andava di moda allora. Ora era diventato un money-maker. Un astuto regista al servizio della perfida Hollywood: non si può incassare così tanto e essere anche bravi.

 

In Italia esce a Natale e si perde il gioco di specchi con la stagione balneare. Poi diventa un punto fermo del palinsesto estivo


Nell’estate del ‘75, “Jaws” è ovunque primo al box-office, tranne in Italia, dove è battuto da “Amici miei” di Monicelli, ed era in effetti una sfida tra titani. Da noi però il film era uscito a Natale, smarrendo completamente quel gioco di specchi con la stagione balneare che l’aveva trasformato nel primo “summer blockbuster”. Sarà poi la televisione a costruire piano piano la fatale associazione tra lo squalo e l’estate. Il film di Spielberg diventerà un punto fermo del palinsesto estivo. E qui torniamo al me bambino, nei beati anni della villeggiatura della Prima Repubblica, mollato dai genitori davanti alla tv nelle calde sere di luglio, che giura a sé stesso che mai e poi mai metterà più piede in acqua.

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