(foto di Ahmet Serdar Eser/Anadolu via Getty Images)

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Così Mubi si fa largo nell'industria indie tenendo in gran conto il box office

Mariarosa Mancuso

Non solo Netflix, anche la piattaforma nata per distribuire film d'autore ha la sua leggenda e la sua mente: Efe Çakarel

Non solo Netflix. Anche Mubi – la piattaforma nata per distribuire film d’autore, che pagate e raramente vedete – ha la sua leggenda. Netflix nasce quando Reed Hastings, multato per aver restituito un Dvd in ritardo, stabilisce che basta infilare il Dvd in una busta, e poi in una casella postale. Senza penale. Il resto lo sapete. Invece di distribuire film altrui, la ditta decise di farlo con una serie di produzione propria. Era “House of Cards”. 
E di Mubi, cosa sapete? Nasce nella testa di Efe Çakarel. Nato in Turchia, giovanotto in vacanza a Tokyo, a Natale del 2006 cercò una copia di “In the Mood for Love” di Wong Kar Wai. Non trovandola, immaginò una piattaforma per il cinema d’autore. Buttò giù il business plan mentre volava dal Giappone a San Francisco, immaginando un’alternativa più snob a Netflix. Efe Çakarel oggi ha 49 anni, e ricorda: “Non ero mai stato a un festival, non conoscevo nessuno, volevo creare un paradiso per cinefili”. Niente Cannes o Venezia, solo una grande passione e gli studi al Mit. Poi un Mba a Stanford. Lavorava in una banca di investimenti, e in un caffè di Palo Alto disegnò un sito che si sarebbe dovuto chiamare “The Auteurs” – omaggio sicuro a “Le Big Mac” di “Pulp Fiction”. Nel 2010 cambiò nome in Mubi: Mr. Çakarel smise di avere risparmi, tutto era investito nella nuova piattaforma, che era costata il 70 per cento in meno dei rivali, ma qualche soldo lo aveva richiesto.

 

Vent’anni dopo – come nel romanzo di Alexandre Dumas – Mubi vale un miliardo di dollari e “mordicchia le caviglie” – leggiamo su Variety – di A24 e di Neon, finora protagoniste incontrastate della scena indie delle case di produzione. Dove si vendono, si comprano, si propongono al pubblico i film indipendenti, scrive Elsa Keslassy, che dedica a Mr. Çakarel la copertina del numero di Variety uscito a metà maggio, in pieno festival di Cannes. Mubi è arrivato sulla Croisette con un paio di film premiabili. La storia familiare “Sentimental Value” diretta da Joachim Trier con Renate Reinsve. E “The History of Sound” con la smagliante coppia di sexy maschi Paul Mescal e Josh O’Connor, che all’inizio del ’900 girano il New England per registrare, con i cilindri in cera, le canzoni tradizionali delle zone rurali (da un racconto di Ben Shattuck). 

 

Quando non accompagnava i suoi film sul tappeto rosso, Çakarel aveva il libretto degli assegni in mano, in cerca di progetti interessanti su cui scommettere. L’anno prima il suo grande successo era stato “The Substance” con Demi Moore. Il modello di business di Çakarel tiene in gran conto il box office (non è una bestia cattiva, è quel che consente alla macchina di girare). Intende però rinvigorire la cultura che sta attorno al cinema – nel senso dello spettatore che ci va – creando un ecosistema che va dallo streaming, all’editoria – seria, di libri – ai cinema d’essai. Finanziando e facendo circolare i film fuori norma, o visionari, che spaventano gli altri distributori.

Mubi è un’azienda privata, Çakarel resta sul vago quando si parla di soldi. Esibisce però i suoi margini di profitto. Ha una riserva di 100 milioni di dollari messi a disposizione da Sequoia Capital. A Londra compra i cioccolatini da Marchesi (ora di proprietà Prada) e li offre alla cronista: “Eat sweet, speak sweet”. Nel 2016 ha deciso di entrare nel sistema della distribuzione diremmo “hard”. Tranquilli, vuol dire solo delle sale fisiche, dove si paga il biglietto e ci si siede. Dice: “Compro i film per la mia piattaforma, e li faccio diventare successi in sala”. Qualcosa si muove, non sempre nella direzione suggerita dai pessimisti, che consideravano il cinema originale e intelligente morto e sepolto.

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