cannes '25

“Alpha” è sfinente, ma “La femme la plus riche du monde” ridà respiro

Mariarosa Mancuso

Riecco spike lee con un remake. Julia Ducournau firma un film sfiancante e controverso: in “Alpha”, corpi che si marmorizzano, incubi profondi e metafore virali. Alla Quinzaine, invece, Klifa e Huppert portano satira e glamour miliardario

Julia Ducournau colpisce ancora. Colpa di Spike Lee: da presidente della giuria l’aveva imposta al cinema d’autore con la Palma d’oro per “Titane”. Ma il regista era occupato a pavoneggiarsi in una sala a fianco, vestito alla maniera di un capobanda. Musicale, intendiamo. O di ragazze pon pon. Pantaloni e giacca lunga a righe viola e senape (i colori della Nba suggeriscono gli esperti). A Cannes ha portato, fuori concorso, il remake di un film di Akira Kurosawa, “Highest 2 Lowest”. Molto applaudito e apprezzato – andrà su Apple tv, e solo allora lo vedremo anche noi: è uno di quei titoli che nascono “esauriti”, mistero poco glorioso di Cannes 2025. Dopo 5 minuti, la sala risulta completa, e si torna a fare la fila last minute. Primi sospettati, i bot.
      

Julia Ducournau, dunque. Colpì la fantasia del geniale giovanotto di “Fa’ la cosa giusta” perché la protagonista si faceva ingravidare da una Cadillac, e il piccino ciucciava olio motore. In “Alpha” prosegue la sua ricerca sui corpi, andando in profondità nei suoi incubi (dixit) e trova una malattia contagiosa come l’Aids che però mummifica. Meglio: marmorizza, con le vene che traspaiono e tutto il resto è statua. Potrebbero essere gli anni 80 del secolo scorso, o un decennio pandemico che deve arrivare.
       

L’attrice Golshifteh Farahani è madre di un’adolescente che torna a casa da una festa (insomma: nel nostro mondo lo sarebbe) con una A malamente tatuata su un braccio. E’ medico, quindi si informa sulle condizioni dell’ago: era sporco? era condiviso? domanda inutile, a una ragazzina che non sembra lavarsi i capelli da mesi – la mamma invece ha i riccioli bene in ordine. Arriva lo zio della ragazzina, emaciato e malfermo sulle gambe –  nel disperato tentativo di dar senso all’insensato, si direbbe un eroinomane degli anni 80, secolo scorso. La famiglia, si direbbe nordafricana, cucina intingoli, sforna dolci, assilla la ragazzina con proverbi e riti magici – non sarai un po’ pallida?
     

Sfinente, a dir poco. L’unico accolto in concorso che andava bocciato: il cinema è arte di superficie, quel che sta nel profondo inconscio della regista dovrebbe restare dove sta. Comunque, nulla più di quel che immaginava il maschio e colto T. S. Eliot nel poema “La terra desolata” – ma il poeta lo diceva meglio. 
     

Alla Quinzaine, “La femme la plus riche du monde”, di Thierry Klifa ridà un po’ di respiro. La trama è liberamente ispirata a Liliane Bettencourt, padrona dell’Oréal, e di sua figlia che la portò in tribunale. Nel film si chiama Marianne, per libertà creativa, e per evitare altri avvocati e querele. Isabelle Huppert è una donna stra-stra-stra miliardaria, con un marito che l’annoia, si incapriccia di un fotografo che la seduce, riccamente compensato da regali e assegni per centinaia di milioni. “Dei miei soldi faccio quel che voglio, e lui mi fa divertire”, dice alla figlia, preoccupata per il patrimonio e per l’azienda – il fortunato slogan “perché io valgo”, coniato più di 50 anni fa, vale come sintesi.
     

Il giullare, ben ricompensato con un miliardo in regalìe, è l’attore Laurent Lafitte. 12 anni alla Comédie Française. Passa dal teatro al cinema con la disinvoltura che solo i francesi hanno. Lo ritroviamo in “Classe Moyenne” di Antony Cordier. “Classe media”, ovvero “son finiti i giorni belli”. Possiede una villa con piscina tra gli ulivi, ha sempre pagato i suoi vicini tuttofare in nero, farcisce i pomodori e i discorsi con motti latini. Dopo un piccolo scazzo, che diventerà una guerra, vogliono gli arretrati. Cerca di mediare il giovane avvocato: fidanzato con la figlia del padrone, come il servo viene dalla Cabilia, nord dell’Algeria.