(foto EPA)

Cannes '25

Lo splendente bianco e nero su Godard. Ma resta in testa il film sul terrore staliniano

Mariarosa Mancuso

Ne "La trama fenicia" Wes Anderson torna a girare sui treni, ma ora basta. "Nouvelle Vague" di Linklater rievoca l’alba ribelle del cinema francese: Godard, Truffaut e Seberg rivivono in un bianco e nero brillante, tra cinefili radicali, dialoghi improvvisati e leggerezze da buffet

Wes Anderson, sia detto con amore e rispetto: ora basta treni. Nulla sarà più fascinoso del “Darjeeling Limited”: i vagoni che conducono tre scombinati alla ricerca della madre Anjelica Huston, sparita in India. Con loro viaggia un set di valigie Vuitton disegnate per l’occasione: l’eredità da spartire. “La trama fenicia” piazza sul treno Benicio del Toro, riccone dalle misteriose proprietà, con in testa un misterioso piano di sviluppo. L’amore di Wes Anderson per le inquadrature frontali lascia spazio a qualche inquadratura dall’alto. Un’enorme sala da bagno piastrellata, con il miliardario a mollo nella vasca.  Si chiama Zsa-zsa Korda, con una strizzata d’occhio alla storia del cinema. Ha molti nemici e qualche socio da cui spera di ottenere cospicui finanziamenti. Anche molti figli, di cui ha perso le tracce. Dopo un attentato, ritrova l’unica femmina, suor Liesl: l’attrice è Mia Threapleton, figlia di Kate Winslet, dagli incedibili occhi azzurri. Esce in sala il 28 maggio. In testa alla classifica, rimane fisso il film sul terrore staliniano di Sergei Loznitsa, “I due procuratori”. Finora aveva diretto solo documentari, uno sulla morte di Stalin: i dolenti in fila interminabile, la seta rossa intorno alla bara. 

Segue l’audace mossa di Richard Linklater: il film “Nouvelle Vague”, con i registi francesi – Truffaut, Rohmer, Chabrol, Agnès Varda – che volevano seppellire “il cinema di papà”. L’unico che ancora non aveva diretto film – soltanto teorizzato, seppellito i colleghi di citazioni, dettato regole: in prima fila alla Cinémathèque per assorbire la luce del proiettore – era Jean-Luc Godard. (Scelto dalla Fondazione Prada per battezzare il suo cinema: i discorsi risuonano nell’ascensore, indisponendo i non credenti.) Nel 1959, Godard riesce finalmente a farsi finanziare un film. Lo aiuta François Truffaut, che suggerisce la storia – oggi si direbbe un “true crime”. Piano di lavorazione inesistente, i dialoghi venivano scritti la mattina al caffé – sempre che il regista parolaio, nascosto dietro gli occhiali neri, non decidesse di giocare a flipper, per la disperazione del produttore. 

L’attrice Jean Seberg, arrivata dagli Stati Uniti senza sapere cosa l’attendeva, prima si spaventa e poi si diverte. Pettinatura e abiti rendono l’attrice Zoey Deutch identica all’originale: americana a Parigi che dopo un po’ sta al gioco. Fino a fare il verso – con il collega Jean-Paul Belmondo, qui l’attore Aubrey Dillon – al futuro maestro, che simpatico non deve essere mai stato. “Fino all’ultimo respiro” sarà la sua fortuna. Con gli anni, e dopo una serie di esperimenti non altrettanto riusciti, sarà odioso e sprezzante come negli ultimi film concessi a Cannes. La stoffa già c’era. Il meraviglioso mondo del cinema fatto per strada – rubando il carretto dei giornali, per nascondere la macchina da presa che inseguiva Belmondo – è ricostruito da Linklater in uno splendente bianco e nero. A uso di chi non riconosce tutti i personaggi – come il venerato maestro Roberto Rossellini che si porta via i tramezzini dal buffet – ci sono i sottopancia.

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