nelle sale

Un toro dannato e scatenato torna al cinema

Andrea Minuz

Per festeggiare il restauro in 4k la pellicola di Martin Scorsese che racconta la storia di Jake La Motta torna nei cinema. Un pugile spregevole ma indimenticabile, una prova estrema per Robert De Niro

Picciotto del Bronx, pugile corrotto, marito violento, gestore di locali a Miami, comparsa al cinema, freak nei talk-show americani e stand-up comedian. Jake La Motta ha vissuto quattro o cinque vite che sintetizzava così: “Ho avuto sette mogli, ho bevuto tutto l’alcool del mondo, ho fumato tutti i sigari di Cuba”. Nessuna di queste tre cose, né la marea di cazzotti presi in oltre cento incontri, gli impedì di arrivare a novantasei anni, seppellendo due dei suoi quattro figli. Fu una di loro, Christine, a dare la notizia della morte con un post su Facebook nel 2017, “Rest in peace, Dad”. Una pace che davvero in vita non aveva mai trovato, né cercato. Il 14 febbraio del 1951, le immagini di La Motta alle corde, tumefatto, sanguinante, mezzo svenuto e in fin di vita, fecero il giro del mondo. Passato alla storia come “il massacro di San Valentino”, l’incontro era l’ennesima sfida contro Sugar Ray Robinson, più bravo, più tecnico, più elegante di lui. L’arbitro avrebbe dovuto interrompere l’incontro e La Motta, che non andava mai al tappeto e non ci andò neanche quella volta, rischiò di restarci secco. “Non era più boxe”, scrissero sui giornali, “ma un’esecuzione”. Si trascinò sul ring ancora qualche anno ma la sua carriera finì quella sera. A farlo entrare per sempre nella leggenda ci pensarono De Niro e Scorsese con “Toro scatenato” (La Motta era talmente “bigger-than-life” che un film non bastava: ecco nel 2016, “The Bronx Bull”, sequel non autorizzato, e assai modesto, e anche un documentario che si può vedere su YouTube). “Toro scatenato” torna ora al cinema per tre giorni, restaurato in 4k, e vale davvero la pena mollare Netflix per una sera, prendere la macchina, fare il biglietto e scaraventarsi in sala con un barile di pop-corn (magari in versione originale, perché bravissimo Ferruccio Amendola, ma le sfuriate di De Niro e Joe Pesci in quel formidabile impasto italo-americano sono un’altra cosa). 

Suonerà banale, ma film così non se ne fanno più. Se non altro perché ci vorrebbero troppi disclaimer a metterci in guardia da tutte le cose che potrebbero urtare la nostra sensibilità: “mascolinità tossica”, misoginia, violenza sulle donne, razzismo, una generale condotta ripugnante di La Motta, forse anche un po’ di body-shaming per quel legame tra ingrassamento e decadenza. La scorsa settimana, mentre giravano queste foto di Scorsese su un set a New York con l’idolo dei millennials, Timothée Chalamet, in canotta bianca proprio come De Niro in “Toro scatenato”, abbiamo temuto un remake fluido e inclusivo, ma era solo uno spot (e però forse non sarebbe male, chissà). Quando si parla di un film così è impossibile separare fatti, fattoidi e leggende. Di sicuro, né De Niro né Scorsese avevano una passione per il pugilato, non sapevano nulla di boxe prima di fare il film, e del resto è davvero riduttivo guardare “Toro scatenato” come un film “sulla boxe” (i patiti del genere però lo acclamano “miglior film sportivo” di sempre). Verso la fine degli anni Settanta, dopo cinque film, un capolavoro e un gran flop, Scorsese pensava di mollare per sempre con Hollywood. “New York, New York” era stato un vero disastro. Nonostante De Niro e Liza Minelli, nonostante una hit che Sinatra avrebbe reso immortale, il film aveva fatto perdere parecchi soldi alla United Artists. Scorsese aveva trentasette anni ma ne dimostrava dieci di più. Stava divorziando dalla sua seconda moglie, era depresso, passava a letto metà della settimana, l’asma non gli dava tregua, era dipendente dalla cocaina, da una marea di altre pillole e pesava quarantanove chili. Immaginò una via di fuga. Una svolta à la Rossellini, uno dei suoi eroi cinematografici insieme a Ford, Welles, Fellini: “Pensavo di partire per Roma e andare a girare documentari sulle vite dei santi”, dice nella sua autobiografia (da ragazzino fu chierichetto, poi pensò di farsi prete, poi divenne sfrenato cinephile e l’idea di girare documentari sui santi era la cosa più vicina a prendere i voti). Nelle foto di quel periodo sembra in effetti più un missionario del Nicaragua che un paisa’ di Little Italy. Magrissimo, emaciato, l’occhio un po’ da matto, barba e capelli lunghi. Nel corso degli anni girerà invece documentari su Fran Lebowitz, i Rolling Stones, Bob Dylan, ma l’ossessione per i santi non lo abbandonerà e ritorna nei gesuiti giapponesi di “Silence”, film monacale e austero, fatto anche per disintossicarsi da tutti quei gangster. 

Furono due cose a salvargli la vita. Una è “Toro Scatenato”, che Scorsese inizia a girare su pressione di Robert De Niro, convinto sarebbe stato comunque il suo ultimo film. L’altra ha a che fare con Rossellini. Nel 1979, Isabella Rossellini non era ancora una top model, aveva ventiquattro anni, era stata lì lì per sposare quel gran marpione di Luciano De Crescenzo e faceva l’inviata da New York per Renzo Arbore a “L’altra domenica” su Rai 2.  Doveva intervistare star americane a caso e un giorno toccò a Scorsese, che aveva appunto in promozione “New York, New York”, film perfetto per un bel siparietto con Arbore. Forse Scorsese non vedeva solo una ragazza affascinante e bellissima. Forse c’entrava anche il suo amore incondizionato per il regista di “Roma città aperta” e “Viaggio in Italia”, un transfert, una proiezione cinefila, chissà. Fatto sta che i due si sposano pochi mesi dopo. Cerimonia a Bracciano, castello Odescalchi, che usava anche allora, prima di Eros e Michelle e Tom Cruise e Katie Holmes. Lui in smoking bianco, lei casual, mamma Ingrid non proprio felicissima e Robert De Niro testimone dello sposo. Di fatto però è la coppia che aveva raggiunto l’attore in Italia. 

Le riprese di “Toro scatenato” erano iniziate a metà aprile ma dopo tre mesi si erano interrotte, perché la lavorazione del film era stata progettata in due parti: nella prima i combattimenti e le vicissitudini del giovane La Motta. Nella seconda, lui grasso, invecchiato, gestore di bar e battutaro da palcoscenico. In mezzo, un mirabolante gran tour gastronomico di De Niro che se ne va in Francia e in Italia per mettere su una trentina di chili il più in fretta possibile. Dopo un Oscar negato per “Il Cacciatore”, l’anno prima di “Toro scatenato”, De Niro costruì la sua rivalsa pezzo dopo pezzo, con una pazienza, una tenacia, una meticolosità impressionanti. Da tempo aveva individuato nella biografia di La Motta il personaggio perfetto (e con una certa audacia: tutti sconsigliavano di fare un film su un tipo così spregevole, ma il libro era zeppo di riferimenti cinematografici, con passaggi come “mi sembrava di vivere in un gangster movie” o “se ripenso alla mia vita mi scorre davanti un vecchio film in bianco e nero”, ma sul bianco e nero di “Toro scatenato” torneremo più avanti). Poi dovette convincere Scorsese, che odiava la boxe, a girarlo nel bel mezzo di un collasso psicofisico, dopo che gli aveva detto di no già due o tre volte (ma De Niro se lo portò ai Caraibi, aria fresca, meno coca, scrissero la sceneggiatura insieme, a partire da uno script di Paul Schrader). Usò infine il suo corpo come un “effetto speciale”. Nella promozione di “Toro scatenato” l’ingrassamento di De Niro era raccontato come un’attrazione spettacolare, l’elemento di richiamo per un pubblico che in gran parte non si ricordava più di La Motta. Era l’epoca di “Star Wars” e “Alien”, e modificare il proprio corpo con sforzi e sacrifici sembrava l’unica contromossa possibile. Autenticità e realismo spinti all’estremo. 

In “Toro scatenato” c’erano due performance: quella di De Niro sullo schermo, e quella fatta di due anni di training con La Motta, quattro incontri in una palestra di Brooklyn (di cui due vinti per ko) e una trasformazione fisica impressionante. “Actor Studio” in purezza. Con l’Oscar per “Toro scatenato” De Niro darà il via alla lunga saga hollywoodiana dei cambiamenti fisici per impressionare la critica. Si apre qui un lungo ciclo di perdite o aumenti di peso strabilianti, capaci di dare una svolta alla carriera di un attore, magari una nomination o un Oscar, a rimarcare una nuova distanza tra le star di Hollywood e noi comuni mortali che invece non riusciamo a buttare giù due chili prima dell’estate: ecco i dimagrimenti scheletrici di Christian Bale e Matthew McConaughey in “L’uomo senza sonno” e “Dallas Buyers Club”, ecco i venti chili in più di Renée Zellweger per diventare Bridget Jones, o l’abbrutimento e ingrassamento di Charlize Theron in “Monster”. Fino al trionfo di Brendan Fraser agli Oscar di quest’anno, gigantesco obeso in “The Whale” (e però che differenza! De Niro non aveva una tutina di carne addosso, né il digitale, e i suoi trenta chili li ha presi e buttati giù da solo). Il secondo Oscar di “Toro scatenato” andò a Thelma Schoonmaker, che monterà tutti i film di Scorsese. Ci sono stacchi epici che ci catapultano dal 1964, mentre La Motta prova un monologo in camerino, a un cazzotto in pieno viso di venticinque anni prima, e la frase “that’s entertainment!” che resta appesa tra una scena e l’altra. Ci sono incontri di boxe come non si erano mai visti prima al cinema. I cazzotti erano ripresi sempre un po’ a distanza, dal punto di vista degli spettatori, come in tv insomma. Scorsese invece piazza la macchina da presa sul ring, tra i pugili, ci fa sentire i pugni, il sudore, il fiato che si spezza, inquadrature, stacchi e punti di vista impossibili per restituire tutta la carnalità della boxe. Non l’impresa sportiva, ma la rabbia.

E poi c’è il bianco e nero di “Toro scatenato”. Scorsese ha sempre motivato la scelta legandola ai suoi ricordi e al fatto che gli incontri di boxe in televisione erano in bianco e nero. C’entra però anche la ricerca di autenticità. L’idea di fare qualcosa di completamente diverso da “Rocky”, che era stato un successo incredibile appena tre anni prima e già arrivato alla seconda puntata della saga. C’entra il fotogiornalismo anni Quaranta, quei meravigliosi servizi su Life che raccontavano La Motta dentro e fuori dal ring. C’entra “Fronte del porto” col monologo di Brando ripreso da La Motta/De Niro, e una generale atmosfera da film noir, e Scorsese e Michael Chapman, direttore della fotografia, che prima di girare si studiano inquadratura per inquadratura “La fiamma del peccato” di Billy Wilder. Al cinema poi s’era appena vista la grandiosa New York in bianco e nero di Woody Allen, celebrata con la rapsodia di Gershwin. Scorsese farà lo stesso, ma con Little Italy al posto di Manhattan: ragazzi in canotta, madri in vestaglia, case piene di santini e madonne, profumi di sugo in strada, arie d’opera. “Toro scatenato” è anche, forse soprattutto, un film sulla Little Italy del Bronx. Joe Pesci all’epoca delle riprese faceva il cameriere (e fu un’altra trovata di De Niro metterlo nel film). Parte da qui un cinematic universe che arriva fino a “The Irishman”, passando da “Quei bravi ragazzi” e “Casinò” e uno spin-off assai scorsesiano come i “Soprano”. Ma il senso di “Toro scatenato” è già tutto nei suoi magnifici titoli di testa. Un ring, un pugile che si scalda, il ralenti, i lampi dei fotografi nel buio, l’intermezzo della “Cavalleria Rusticana” che copre tutto di un senso tragico e incombente. I titoli di testa, si sa, sono un’arte, come le grafiche animate di Saul Bass sui credits dei film di Hitchcock. Ma pochi restano impressi come quelli di “Toro scatenato”. L’intermezzo di Mascagni non sembra scritto per la disgraziata vicenda di Turiddu ma cucito addosso alle sofferenze del toro del Bronx, e poi quanta Vizzini di Verga in questa Little Italy in bianco e nero di Scorsese! 

Con la boxe c’è sempre di mezzo un’epica romantica, l’onore, il rispetto dell’avversario, l’eroe che si riscatta con l’unica cosa che sa fare, tirare pugni. E’ sempre stato così, da Hemingway a Joyce Carol Oates e FX Toole (i suoi racconti di boxe ispirarono “Million Dollar Baby” di Clint Eastwood e sono tra i più belli in assoluto). Non è così però con “Toro scatenato”, “il più fradicio dei film di boxe”, come scrisse il critico Roger Ebert. Non c’è nulla di romantico in La Motta. Neanche nel suo modo di boxare. Istintivo, rozzo, rabbioso come le capocciate al muro di De Niro/La Motta nella scena in cui finisce in cella. Scorsese cavalca il trend di “Rocky” ma lo ribalta. Rocky Balboa è un eroe à la Frank Capra, l’everyman colpito da una botta di culo, con la vita che gli offre una possibilità quando tutto sembrava perduto, e il sogno americano che va avanti. Jake La Motta no. Non lo vediamo quasi mai allenarsi, secondo quello schema sacrificio-fatica-successo celebrato da quasi tutti i film sulla boxe, soprattutto da “Rocky”. Non c’è neanche lo spiegone parapsicologico che ogni regista oggi dovrebbe infilare: sono così perché mio padre assente, mia madre alcolizzata, la strada, la povertà, il riformatorio, la prigione, abbiate pietà, non è mica colpa mia. Il La Motta di De Niro e Scorsese è invece spregevole, autodistruttivo, violento, geloso perché insicuro come un bambino, e non proprio sveglio. Non è un modello di nulla, se non della ferocia di un “american dream” che lo travolge, gli regala un’ascesa e una rovinosa caduta, secondo la più classica delle tragedie americane. Di quelle che al cinema si vedono meglio.

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