“The Departed” di Martin Scorsese è l’ultimo grande film di Nicholson. All’epoca aveva settant’anni 

una rassegna

Hollywood dei miracoli: le star che non invecchiano

Andrea Minuz

Nessuno si sente più vecchio. Forse solo i giovani depressi che non escono mai dalla cameretta. I grandi del cinema non fanno eccezione e salvano il box office. Un esempio su tutti: Jack Nicholson, 86 anni oggi, è impeccabile anche da recluso

Eccolo sulla veranda di casa, tutto scarmigliato, trasandato, praticamente in pigiama, però sprezzante come sempre, col suo magnifico sopracciglio diabolico. Altro che “irriconoscibile” come hanno scritto i giornali! Quello immortalato qualche giorno fa dal Daily Mail, negli scatti rubati che hanno fatto il giro del mondo, è semmai un delizioso Jack Nicholson in purezza, ottantasei anni proprio oggi (auguri!). E’ il superbo Satana in vestaglia di “Le streghe di Eastwick”, è il misantropo che se ne sta tappato in casa in “Qualcosa è cambiato”, è il miliardario malato terminale che scappa dalla clinica con Morgan Freeman nel film di Rob Reiner, “Non è mai troppo tardi”, che in inglese suona meglio (“The Bucket List”). E’ Jack Torrance, invecchiato e scongelato che si affaccia dall’Overlook Hotel, è Frank Costello, criminale pazzo e spietato in “The Departed”, che è anche l’ultimo grande film di Nicholson. All’epoca aveva settant’anni. Era irresistibile con quei pantaloni kaki che starebbero male a tutti, la polo di tre taglie più grande, le pantofole nere di pelo che vendono all’Autogrill. Si presentava così alle conferenze stampa del film di Scorsese. Spiegava che aveva lavorato al suo personaggio chiedendo al regista di precisare meglio quei passaggi del copione in cui c’era scritto “Costello-fa-sesso-in-modo-dissoluto” (“telefonai a Scorsese per entrare nel dettaglio di questa dissoluzione: mi sembrava troppo vago”). Chissà come se la caverebbe oggi col codice di comportamento di Netflix, l’intimacy coordinator, il supervisore per le scene di sesso, i baci in digitale e tutte quelle cose che con lui per fortuna non vedremo mai. 

Nell’epoca della “silver economy” e della scomparsa della “terza età” (siamo ormai alla “quarta” o “quinta” come il 5G con le reti mobili), con gli anziani che sono ormai i nuovi giovani, un target di mercato promettente e in continua espansione, dunque in questo nuovo capitalismo geriatrico che celebra la sua “age pride”, non siamo più abituati all’idea di un’ottantacinquenne non proprio in forma smagliante, scattante, glamour. Jack Nicholson ci sembra invece impeccabile nel suo essere Jack Nicholson anche così, soprattutto così. Avvantaggiato naturalmente dal repertorio di personaggi che gli stanno sempre addosso, insomma da quell’effetto-cinema che è inseparabile dalla sua figura, qualunque acciacco gli capiti. Quella cosa che alla televisione non è concessa. Al cinema le facce invecchiano, le maschere no. Un anchorman televisivo in pensione diventa un vecchio presentatore di cui forse non si ricorda più nessuno. Una star come Jack Nicholson resta una leggenda pure in mutande e pedalini. 

La sua ultima immagine pubblica risale a due anni fa. Era col figlio, a bordo campo, per una partita dei suoi amatissimi Los Angeles Lakers. Poi più nulla. Si è rintanato nella sua villa sulle colline di Beverly Hills, nei dintorni di Mulholland Drive, quella che aveva comprato da Marlon Brando e a lungo desiderata, la residenza dove il “Duca” aveva vissuto trent’anni, pure lui recluso come un animale morente. Poche settimane fa circolavano notizie allarmanti. “Non esce, non mette il naso fuori di casa, non ha contatti con nessuno a parte i figli”, dicevano gli amici preoccupati per la sua salute: “morirà da solo come Brando” (ma non sarà forse un problema della casa?). Si tornava a parlare di demenza senile, di un Jack Nicholson “con il cervello ormai andato”, ma non c’è nulla di ufficiale e chissà, forse pesa un po’ anche lo spettro dei personaggi cui gli attori finiscono per assomigliare, primo fra tutti qui il Randle Patrick McMurphy instupidito e lobotomizzato di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”. L’idea che un divo dalla vita sociale un tempo molto movimentata e sregolata se ne resti chiuso in casa come un vecchio pensionato qualsiasi non è abbastanza intrigante. Bisogna allora nutrire l’irresistibile passione per il declino impietoso della star, che è vecchia quanto l’arte di raccontare storie. Vogliamo lo sfracello, il dramma, il naufragio mentale, o almeno l’isolamento assoluto come i tanti letterati-eremiti che da Salinger in su costruiscono la propria leggenda nei boschi o nelle catapecchie vicino una cascata, un ruscello, lontano dal frastuono del mondo, e il loro non scrivere, non lavorare, non mostrarsi s’ammanta di mistero. 

Ma in un’epoca in cui anziani in forma raggiante o nonni che non possono occuparsi dei nipoti perché hanno le prove a “The Voice senior” sono ormai la norma, lo spettacolo del disastro della vecchiaia si fa sempre più raro. Negli ultimi scatti rubati Greta Garbo sembrava una gattara di Manhattan. Anche lei destinata a una vecchiaia di isolamento e ombra, anche lei ai limiti della malattia mentale, evidentemente un cliché o un cedimento ricorrente per le grandi star. Andava in giro nei dintorni dell’East River tutta infagottata per non farsi riconoscere, e visse più o meno reclusa quarant’anni in trecento metri quadri, al quinto piano di un palazzo della 52esima strada, l’unico che le ricordava un po’ la Stoccolma di quand’era bambina. Di passaggio a Milano, quando ormai si era ritirata da tempo, veniva descritta in un articolo su Oggi come “un’anziana signora di cui un tempo fummo tutti innamorati”. Aveva 57 anni. L’età che ha oggi Cindy Crawford, che però si immortala nuda e senza trucco su Instagram, fa la testimonial della San Benedetto e ritiene giustamente che invecchiare sia una “great opportunity”. Per la Garbo era invece orribile. Oggi sparava a doppia pagina un impietoso accostamento tra una Garbo del ’36 in un film di Cukor e un ingrandimento del suo primo piano rubato da un fotografo. La didascalia era cattivissima: “Ha rinunciato finalmente davanti alla folla dei fotografi a proteggere con i grandi occhiali neri o con la mano sul volto il suo mito, come a dire, ‘lo volete distruggere? Ecco, peggio per voi’”. 

Le star non accettavano l’invecchiamento. Vivevano di rimpianti. Fuggivano lo sguardo di ammiratori e fotografi, oppure impazzivano, come Norma Desmond in “Viale del tramonto”. Una cosa che oggi ci sembra inconcepibile. Gloria Swanson non ha fatto in tempo ad arrivare ai giorni nostri, altrimenti starebbe a “L’Isola dei famosi”, in bikini, felicissima, col fidanzato toy-boy in studio. La serie Hbo “Feud”, uscita qualche anno fa, raccontava la lavorazione del film di Robert Aldrich, “Che fine ha fatto Baby Jane?” e la rivalità leggendaria tra Bette Davis e Joan Crawford, che però sotto sotto si spalleggiavano per rivendicare entrambe il proprio spazio in un’industria che le considerava vecchie e decrepite e le ritirava fuori esibendole come freak. Nel 1962, l’anno del film, Bette Davis e Joan Crawford avevano cinquantaquattro e cinquantotto anni. In “Feud”, Susan Sarandon e Jessica Lange le interpretano rispettivamente a settantadue e sessantanove anni e devono anche invecchiarle un po’ col trucco. Jack Nicholson trasandato e recluso è insomma un divo old-fashioned. Un’anomalia in un mondo di vecchi e vecchietti di Hollywood che lavorano indefessi e sembrano infaticabili e raccontano di un’età che si pretende sempre più “percepita” e sempre meno biologica. Un’età fluida ed emozionale: “sentita” più che vissuta. 

Del resto, le ultime star di Hollywood appaiono davvero le ultime. Una colonia di grandi vecchi come Clint Eastwood, o diversamente giovani come Tom Cruise, ma che sembrano tutti ibernati come Walt Disney. Clint Eastwood soprattutto scoraggia qualsiasi paragone, qualsiasi metafora di longevità e vecchiaia creativa. A novantatré anni sta lavorando a un thriller dal titolo provvisorio di “Juror #2”. A novantuno ha intitolato un film “Cry Macho”, praticamente un manifesto. La cara vecchia mascolinità si può e si deve mettere in crisi o forse anche mandare in soffitta per sempre. A patto però che a farlo sia io, Clint Eastwood. C’è una scena in questa ballata-western malinconica in cui gli chiedono di visitare un cane anziano, e Eastwood risponde secco: “Non c’è una cura per la vecchiaia”. Ecco un’affermazione scabrosa nell’epoca in cui l’età, come tutto, è solo un fatto “culturale” da riscrivere a piacimento in barba a reumatismi e artrosi. La sua faccia non è neanche più un segno di Hollywood, ma patrimonio e paesaggio americano, scolpita nel Monte Rushmore insieme a Roosevelt, Jefferson, Lincoln, Washington (altro che attore con due espressioni, col cappello e senza, come diceva Leone: potremmo guardarlo per ore mentre guida un pick-up Ford, come in “The Mule”, Clint Eastwood può muovere anche solo gli occhi, noi ci commuoviamo). 

E poi c’è Robert Redford che a settantasei anni faceva ancora il navigatore solitario nell’oceano in “All is Lost”. E Tom Cruise, che a sessant’anni è ancora più Tom Cruise che negli eighties: duelli aerei, corse in moto, capitomboli, “Top Gun Maverick” che sbanca il box-office, incassa più di un miliardo di dollari nel mondo e salva la stagione di Hollywood. Un last action hero indistruttibile, eroe di saghe muscolari, immortalato in un interminabile coming-of-age, “senza mai essersi lasciato davvero alle spalle il personaggio del sexy-toy-boy”, come dice Bret Easton Ellis (avessimo avuto uno star system, dei film d’azione e Scientology noi potevamo provarci con Gianni Morandi). Tom Cruise è diventato anche il simbolo della resistenza della sala cinematografica nell’epoca dello streaming. Se ne va in giro per il mondo come un testimone della memoria. Tiene conferenze al Festival di Cannes. Lo scorso anno, invitandolo a salire sul palco del Théâtre Claude Debussy, Thierry Fremaux l’ha introdotto come una divinità intimando il pubblico in sala: “Mettete giù quei cellulari e applauditelo!”. Sempre a Cannes, quest’anno torna Harrison Ford che a quasi ottant’anni rivedremo in un ennesimo “Indiana Jones”. Stallone lo si è visto nell’ultimo Rambo a settantatré anni, ed è attivissimo nelle serie tv, nei reality, su Instagram. L’action movie geriatrico è ormai un genere consolidato di Hollywood. Kevin Costner ha fatto il suo primo vero film d’azione a sessant’anni, con Luc Besson. I ventenni che si infiammavano per “Top Gun” e “Rambo” oggi si ritrovano vecchi come i loro eroi di un tempo, condividono perciò gli stessi problemi di tenuta fisica e si lanciano anche loro in una “adventure” che magari diventa un turismo dentale in Croazia, un trapianto di capelli in Turchia con bulbi locali, un day hospital a Malta per mettere guance scavate e zigomi hollywoodiani anche nelle facce più bolse e nei doppi menti più ostinati. 

Nessuno si sente più vecchio. Forse solo i giovani depressi che non escono mai dalla cameretta, come gli hikikomori giapponesi. Un paio di anni fa la fidanzata di Al Pacino l’aveva mollato per una differenza di età che dai e dai si era fatta sentire: lei quarantadue, lui quasi ottanta (però era anche spilorcio, diceva lei). Ora lui ne ha ottantadue e sta con una di ventotto, già ex di Mick Jagger, dunque appassionata e grande amante del genere. Certo per le donne, lo sappiamo, è ancora un po’ complicato. C’è sempre quel problema del “double standard” dell’invecchiamento maschile e femminile, immortalato in un denso saggio di Susan Sontag, ma riassunto in due righe da una vecchia battuta di Bette Davis in “Eva contro Eva”: “Bill ha trentadue anni e ne dimostra trentadue. Li dimostrava cinque anni fa e li dimostrerà ancora fra vent’anni. Maledetti uomini!” Ma le cose cambiano e cambiano in fretta. Diane Keaton si rilancia come influencer su Instagram e fa impazzire le teenager, Isabelle Huppert più invecchia e più lavora (formidabile l’episodio di “Call My Agent” con la Huppert che deve girare un blockbuster e un arthouse coreano contemporaneamente). C’è anche la Vanoni che sbatterebbe al muro Marracash se solo potesse. E poi Sophia Loren, Claudia Cardinale, Juliette Binoche e “Sex and the City 3” che non è naufragato per la menopausa, come si diceva, ma perché ormai c’è da tenere conto dell’inclusivity, c’è da infilare personaggi ispanici, asiatici, afroamericani e sarebbe tutto da riscrivere. Sessantenni va bene, sessantenni solo bianche no. Anche il tatuatissimo ex toy-boy di Stefania Pezzopane che ora dice di soffrire nell’indifferenza generale, che si sente discriminato perché ancora giovane, mentre tutti si preoccupano solo di come possa stare lei, è in fondo una novità. 

E se col Quarto Stato è andata così così, si può sempre ripartire dalla terza età, come nell’“Age Pride”, il nuovo pamphlet di Lidia Ravera, elogio della vecchiaia che va subito in vetta su Amazon, con una quarta di copertina che non si sa se è una gioia o una minaccia: “Un terzo della popolazione italiana è composta da ultrasessantenni, hanno davanti decenni di vita ancora da vivere, non è mai successo prima”. Ma certo, potendo scegliere, meglio andarsene come Sean Connery, pure lui con demenza senile negli ultimi anni, ma morto nel sonno, a novant’anni, nel suo scintillante villone alle Bahamas.

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