E scese dalle stelle E.T.

Andrea Minuz

Nel Natale dell’82 Spielberg portò tutta Italia al cinema. La sua formula? Un’implacabile estorsione della tenerezza. La profezia di De Crescenzo: “Rimarrà in prima visione per 50 anni”. Solo l’Unità rimase fredda. Ma poi si ricredette

L’etichetta di “film generazionale” gli va stretta. Ma certo tutti i bambini degli anni Ottanta avrebbero voluto essere Elliott e nascondere E.T. nella loro cameretta e sfrecciare con una Bmx nei sobborghi di Los Angeles, tra i vialetti di Northridge, Crescent City, Tyjunga. Qui, al 7121 di Lonzo Street, c’è ancora la casa di E.T., divenuta nel frattempo meta di pellegrinaggi nostalgici, selfie e gite cineturistiche, naturalmente incrementate dal fenomeno “Stranger Things”, omaggio, spin-off, prosecuzione di “E.T.” nell’epoca dello streaming. C’è anche chi lascia come souvenir una copia del suo vecchio vhs, quello su cui ha versato fiumi di lacrime, come a Ponte Milvio coi lucchetti, o i fiori, i bigliettini, le poesie sulle lapidi di Chopin, Baudelaire e Jim Morrison al Père-Lachaise. Un’anonima villetta a schiera trasformata in “lieu de mémoire” di quella cultura nerd squadernata nel film, tra fumetti di Buck Rogers, Boba Fett, Yoda, il “Texas Instruments Speak & Spell” che da noi diventava un più collodiano “Grillo Parlante Clementoni”. Visto da qui, quando si era assai giovani, “E.T.” è stato anche la scoperta della “white suburbia” americana, così diversa dalla nostra provincia: distese ordinate di quartieri residenziali, che nel film sono sempre inquadrate dall’alto, come in una griglia di Mondrian fatta di villette, pratini, garage e nient’altro intorno: solo pendii, colline, declivi boscosi, e le maestose “giant sequoia” della California, sempre con notti piene di stelle e luci favolose. Era il posto dove tutti saremmo voluti crescere. C’era stata la California libertaria e lisergica degli hippie e di “Easy Rider”, poi sarebbe arrivata quella green e woke di Steve Jobs. Noi avevamo la California di “E.T.”. Avevamo quella provincia residenziale immortalata da Spielberg e celebrata dal cinema americano degli anni Ottanta, dove del resto c’era quasi sempre di mezzo lui, come in “Ritorno al Futuro”, “I Goonies”, “Poltergeist”, tutte cose prodotte, scritte o commissionate da Spielberg e pensate in funzione di quei luoghi (“mi piace creare una fantasia facile da credere, perché si svolge in posti familiari, dove però accadono cose impossibili, incredibili”). 
  

Aveva riempito di nuovo i cinema, in crisi profonda più o meno come ora. Le vhs erano il nuovo simbolo del tempo libero da passare a casa sul divano

    
Nell’estate del 1982, l’America impazziva per questo piccolo film, “a very little simple movie”, come lo definiva Spielberg, prodotto con pochi soldi, senza star e grandi effetti speciali, almeno rispetto ai budget stratosferici di “Lo squalo”, “Incontri ravvicinati del terzo tipo” e del primo “Indiana Jones”. “E.T.” fu presentato in anteprima a Cannes, tra lo sconcerto dei critici duri e puri che cercavano di nascondere gli occhioni lucidi alla fine (“anche le persone più tetre si scioglievano in una buona commozione ai punti salienti”, scriveva Lietta Tornabuoni inviata al Festival). In America uscì l’11 giugno, da noi sarebbe arrivato a Natale, ma dopo una settimana aveva già risollevato le sorti di Hollywood. Aveva riempito di nuovo i cinema, in crisi profonda più o meno come ora. Le sale chiudevano, il pubblico diminuiva, le videocassette erano il nuovo mantra dell’industria, il simbolo e il feticcio di una nuova idea di tempo libero da passare a casa, sul divano, più o meno come oggi (“E.T.” inizia con il delivery, i ragazzi ordinano una pizza a domicilio, e nell’Italia ancora molto neorealista di Vermicino sembrava fantascienza anche quella). “E.T.” insomma era riuscito nel miracolo: la gente tornava in massa al cinema. Non solo bambini e famiglie. Tutti. Fu una delle prime cose su cui ci si interrogò all’epoca. “Gli adulti tornano al cinema grazie a E.T.”, si intitolava un pezzo del “New York Times” che provava a ragionare intorno a un fenomeno imprevedibile, cercando di capire cosa ci facessero tutti quegli yuppies in fila davanti ai cinema insieme alle famiglie. Circolavano spiegazioni e teorie assai fantasiose sulla “regressione”, l’infantilizzazione della società americana, la nostalgia dell’adolescenza. Tutte cose in linea con il richiamo alla famiglia e ai valori dell’America anni Cinquanta promossi da Reagan in quel momento (una famiglia che negli anni Ottanta non esisteva più: anche in “E.T.” il papà è scappato in Messico con l’amante, la mamma cresce i figli da sola e piange lavando i piatti). 
   

Film sulla genitorialità? Spielberg ha detto che durante la lavorazione aveva per la prima volta preso in considerazione l’idea di avere figli

   

Resta il fatto che “guardando E.T.”, come ha scritto Martin Amis, “stavamo tutti piangendo per le nostre identità perdute”. Forse gli yuppies, con le loro vite stressanti, lanciate verso il successo, trovavano in questo film un’alternativa, una compensazione simbolica a un individualismo “sfrenato” in cui sembrava esserci poco spazio per i sentimenti, l’amicizia, la famiglia. Come scrive Nigel Morris nel suo bel libro su Spielberg (“The Cinema of Steven Spielberg: Empire of Light”, Columbia University Press), “in quegli anni in cui le coppie posticipavano l’idea di avere figli per poter progredire nella carriera e tutto sembrava dovesse essere sacrificato in funzione del lavoro, ‘E.T.’ gratificava in un certo senso anche gli istinti genitoriali repressi dei trenta-quarantenni”. “E.T.” come film sulla genitorialità? Forse una lettura spericolata, però persino Spielberg, poche settimane fa, a una proiezione per i quarant’anni del film, ha detto che durante la lavorazione si sentiva molto protettivo nei confronti di Henry Thomas (Elliott nel film) e Drew Barrymore e che grazie a quel film, aveva per la prima volta “preso in considerazione l’idea di diventare genitore” (oggi Spielberg ha sette figli, chissà quanti ne avrebbe se avesse iniziato con “E.T.” anziché con “Duel”). Certo è che all’uscita del film la pubblicità insisteva molto su questo aspetto. Si raccontava che Spielberg e Rambaldi avessero visitato i reparti di maternità per prendere le misure facciali dei neonati che le infermiere consideravano particolarmente “cute”. L’idea era di trovare la più compiuta espressione dell’essere “carino, fragile e indifeso”, e come prima cosa ci volevano due grandi occhioni malinconici capaci di intenerire anche il più cinico e snob degli spettatori (impossibile resistere alla commozione quando a un certo punto sia E.T. che Elliott finiscono in una specie di incubatrice). Rambaldi utilizzò come modello per il volto di E.T. anche il muso della sua gatta Kikka. Neonati più gattini: praticamente l’algoritmo perfetto della “cuteness”. La formula di un’implacabile estorsione della tenerezza, come poi avrebbe ribadito internet inondandoci di foto di gattini, cuccioli, neonati. La maggior parte dei grandi fenomeni globali, come i Pokémon, Hello Kitty, le bambole So Shy Sherri e Bambi o E.T. hanno in comune proprio questa capacità di “evocare sentimenti straordinariamente protettivi” (come scrive Simon May in “The power of cute”). La nostra mania del “cute” è radicata nell’impulso a prenderci cura di ciò che è innocuo, indifeso, innocente, e che in genere coincide con profili rotondi, morbidi, buffi, come la silhouette di E.T.: qualcosa a metà tra un neonato, un vecchietto e una tartaruga gigante. Del resto, l’essere senza età e senza sessualità definita, “fluidi”, come si dice oggi, e annullare inoltre le distinzioni nette tra vecchio e giovane, umano e inumano, armonico e deforme, sono tutti aspetti decisivi della “cuteness commerciale”, cuore ideologico di un “impero del carino” che, secondo May, oggi domina incontrastato su tutto. Chissà. 
    
Forse però il fascino universale di “E.T.” si regge su una formula più semplice. Da un lato c’era il tempismo perfetto, il ritorno improvviso dei sentimenti e delle lacrime bambinesche dopo un decennio di cupa conflittualità ideologica e intellettualismi esasperati, con la decisiva trasformazione dell’alieno da mostro o minaccia a buffo pupazzone capace di intenerire chiunque. Dall’altro, come tutti i grandi film, “E.T.” si può vedere in molti modi: per Spielberg è un film sul divorzio dei suoi genitori e su come i bambini riempiono quel vuoto improvviso. Ma è anche un romanzo di formazione, è la storia di un’amicizia, è un atto di fiducia nella fantasia, è una rivolta degli adolescenti contro gli adulti, è un melodramma praticamente perfetto, il “Casablanca” dei bambini, con l’astronave al posto dell’aereo, e E.T. che, come Ingrid Bergman, parte perché deve partire, deve finire così, non può restare con Elliott (però poi si riabbracceranno trentasette anni dopo, nello spot natalizio di Sky). In più è anche un film per “cinephile”, che inizia lì dove finiva “Incontri ravvicinati del terzo tipo”: zeppo di riferimenti, omaggi, citazioni, come nell’incredibile scena della liberazione delle rane a scuola, la più bella di tutto il cinema di Spielberg, con Elliott che bacia la sua compagna di classe imitando John Wayne, mentre E.T., ubriaco, guarda “Un uomo tranquillo” di John Ford alla tv, sbracato sul divano. Ma in tutte le letture possibili, metà del lavoro ai fianchi dei nostri sentimenti lo fa la musica di John Williams. “E.T.” non sarebbe “E.T.” senza quel tema. Lo ha detto anche Spielberg, tra i pochi registi che sanno riconoscere l’importanza della musica da film: “Le bici in E.T. non volano grazie agli effetti speciali ma grazie alla musica di Williams” (che anche qui, come sempre con Williams, non è solo commento ma azione, drammaturgia, personaggio aggiunto alla storia). Quando nel Natale del 1982 arrivò in Italia, “E.T.” era già un fenomeno mondiale e una macchina da soldi incredibile su cui tutti volevano salire (la Atari sborsò ventuno milioni di dollari per la licenza del marchio, tirando fuori un videogioco che sarà peraltro un gran flop). Del resto era impossibile evitarlo: E.T. era ovunque, in tv, nei negozi di giocattoli, ospite dei “Muppets” e poi appiccicato sopra tazze, bicchieri, magliette, flipper, biciclette, videogiochi, qualsiasi cosa, inclusa una tremenda pubblicità della Telecom con E.T. che spuntava dietro l’apparecchio e diceva “buon Natale!”. Andavano a ruba i confetti di cioccolato ripieni di burro d’arachidi, “Reese’s Pieces”, quelli che Eliott semina nel bosco per trovare E.T. (dovevano esserci le M&M’s, ma la Mars si rifiutò di sponsorizzare il film, convinta che E.T. avrebbe fatto paura ai bambini, vergognandosi e pentendosi poi amaramente per i decenni a venire). 
  

“Le bici in ‘E.T.’ non volano grazie agli effetti speciali ma grazie alla musica di John Williams”. Non solo commento ma azione, drammaturgia

   
Di fronte a un fenomeno del genere, non poteva mancare da noi un certo fastidio per un cinema ridotto a “giocattolone”, come scriveva l’Unità. “E.T.” faceva piangere tutti ma i comunisti cercavano di restare freddi e impassibili. Qui Spielberg era pur sempre “uno spregiudicato affarista” che aveva fatto un film “sentimentale fino all’impudicizia”, che aveva organizzato la sua “trappola di regressione” dello spettatore in funzione “delle merci”. Ma poi anche l’anticapitalismo dell’Unità si scioglieva davanti a “un impianto favolistico che alla fine commuove”. Si trovò una mediazione esaltandosi soprattutto per la citazione-omaggio al neorealismo, con le bici che s’alzano in volo come le scope nel finale di “Miracolo a Milano”. Spielberg come De Sica e Zavattini, in fondo uno di noi. 
   

Roberto Roversi sull’Unità: “Il film ci libera delle grettezze che a ogni occasione ci spingono a considerare le cose con respiro affannoso, ringhioso”

   
Oggi si portano altre letture. “E.T.” è diventato una “favola dell’inclusività tremendamente attuale”, una portentosa metafora dei legami che superano la “diversità”, un film sull’“accettazione dell’altro”, l’“accoglienza” e la “resilienza”. Di sicuro ha superato nel tempo tutte le resistenze della critica, inclusa quella più diffidente e ostile verso i simboli della cultura pop. Così, la prossima settimana, “E.T.” inaugurerà la 58esima edizione della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, un tempo teatro della cinefilia post-strutturalista e dei reading di Godard e Pasolini, con una proiezione in piazza, sotto le stelle. Ma già in quel Natale del ’82, del resto, un entusiasta Roberto Roversi scriveva, proprio sull’Unità, che “E.T.” era un grandioso esempio di cinema del futuro. Un cinema fondato su immagini e sentimenti potenti, “che ci sollecita a liberarci delle opprimenti grettezze intellettuali che a ogni nuova occasione ci spingono a considerare le cose con respiro affannoso, anche un poco ringhioso, per lo più per paura del nuovo o per semplice incapacità di tenere il passo”. Gli faceva eco Luciano De Crescenzo: “Secondo me E.T. resterà in prima visione per cinquant’anni”. Verso la fine di quell’anno, l’anno in cui Steven Spielberg divenne semplicemente “Spielberg”, mentre il mondo intero impazziva per “E.T.”, Spielberg leggeva per caso sul New York Times la recensione di un romanzo dal titolo enigmatico, “Schindler’s List”. D’accordo con Steve Ross della Universal, acquistò subito i diritti del libro. Decise che prima o poi, quando sarebbe diventato adulto, ci avrebbe fatto un film. E che ci avrebbe fatto piangere ancora, come con “E.T.”.

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