Meno “scatole”, più contenuti: Netflix riparta da idee come “Apollo 10 e 1/2”

Mariarosa Mancuso

L’ultimo film di Richard Linklater è un gioiello da festival, ma per tutti. Vederlo sulla piattaforma di streaming è un regalo, e però misura l’enorme distanza con il resto dell’offerta 

Scambisti di password attenzione. Netflix vi osserva. I risultati trimestrali non sono quelli sperati (prima o poi doveva capitare, la crescita a due cifre non può essere eterna). La rinuncia agli abbonati russi è stata pesante. La concorrenza aumenta. Gli azionisti non sono tanto contenti, e allora ecco l’idea: far pagare, almeno in parte, gli abbonati che usano la password di amici e conoscenti per accedere al servizio. Con il loro consenso, non stiamo parlando di pirateria. Magari in cambio della password per accedere a Prime (non amano che si aggiunga sempre Amazon), Apple tv, Disney+, Sky e tutti gli altri servizi di streaming che in futuro serviranno per potersi lamentare: “Anche stasera non c’è niente da vedere”.

  
     
Una modesta proposta ci sarebbe, per continuare a godere dei nostri favori. Smetterla di ragionare in termini di contenuti da buttar fuori a scadenze regolari, e ricominciare a ragionare in termini di film e di serie. Prodotti compiuti, con una loro ragione d’essere, e una personalità. I contenuti occupano spazio nei palinsesti e contrastano l’horror vacui. Il film e le serie, mini o maxi su varie stagioni, dovrebbero avere una lunghezza commisurata al contenuto, senza somigliare a certi enormi pacchi spediti dalle case editrici con un minuscolo libro dentro, e il resto polistirolo.
   
Ogni tanto qualcosa scappa, ai colpi di pialla dell’algoritmo o di chi per lui (cogliamo l’occasione per dire che non abbiamo nulla contro gli algoritmi, la colpa è di chi li programma, nel vano tentativo di rendere i contenuti più allettanti). L’ultimo film di Richard Linklater – “Apollo 10 e 1/2 - A Space Age Childhood” – è un gioiello che una volta avremmo visto a un festival. E poi magari più nulla, nel senso che nessuno l’avrebbe comprato per distribuirlo. Vederlo su Netflix è un regalo, e però misura l’enorme distanza con il resto dell’offerta.
      
Fine anni Sessanta, Houston. La famiglia di Stan, dieci anni, vive in un sobborgo appena costruito. Il padre lavora alla Nasa. Tutti (non solo nel quartiere) attendono la missione Apollo 11 che porterà i primi astronauti a fare qualche passetto sulla superficie lunare. Qui si intrufola la fantasia del regista di “Boyhood” (il film girato sull’arco di 12 anni, una settimana all’anno, per seguire la crescita del ragazzino Mason). 
    
Stan sogna a occhi aperti: viene convocato dall’agenzia spaziale per una missione delicata e segreta (genitori e amici lo crederanno al campeggio estivo, è tutto organizzato). Gli ingegneri hanno sbagliato le dimensioni del modulo lunare, ci può entrare solo un ragazzino. Ma perché non mandate nello spazio una scimmia? chiede Stan. Risposta: “Tu sai più parole d’inglese”. Parte l’addestramento per la missione Apollo 10 e mezzo. Tecnica (cinematografica): disegni su immagini girate con gli attori veri, come nel precedente “Waking Life” che ragionava su sonno e veglia.
     
Si torna alla vita di famiglia. Un fantasmagorico tuffo negli anni 60, tra ragazzini in bici senza casco, figli di madri fumatrici, mangiatori di ghiaccioli che restavano attaccati alla lingua. La tv con gli angoli stondati mandava in onda “Dark Shadows”, la serie (poi diventata un film con Johnny Depp) che per la prima volta portò mostri e fantasmi al pomeriggio. Al drive-in c’erano “2001: Odissea nello spazio” e “Il pianeta delle scimmie”. Una gigantesca madeleine: i ragazzini inseguivano la nuvola del furgone che spruzzava il Ddt, le ragazze si lisciavano i capelli con il ferro da stiro. La nonna complottista spiegava che J.F.K – ridotto a un vegetale dopo la sparatoria a Dallas – era stato portato in segreto su un’isola greca, e per questo Jackie aveva sposato Onassis.