Cry macho - ritorno a casa

La recensione del film di Clint Eastwood, con Clint Eastwood, Eduardo Minett, Natalia Traven

Mariarosa Mancuso

Il copione ha aspettato mezzo secolo prima di diventare film: all’epoca Clint Eastwood era troppo giovane per il personaggio di Mike, un cowboy con la schiena rovinata da troppi rodei. L’amico che l’aveva aiutato nei momenti di difficoltà gli chiede di riportargli il figlio Rafo, condotto in Messico dalla madre divorziata. Richard Nash aveva scritto “Cry Macho” negli anni 70: due versioni della sceneggiatura (respinte entrambe), poi ne aveva ricavato un romanzo, e cocciutamente aveva riproposto la storia a vari registi. Tra gli attori che ci avevano fatto un pensiero: Robert Mitchum, Burt Lancaster, Pierce Brosnan, Arnold Schwarzenegger. Clint Eastwood ha dato un’aggiustatina al copione con l’aiuto di Nick Schenk (“Gran Torino” e “The Mule”) ed è tornato sul set. A novant’anni. Regista, primo attore, produttore e compositore, concedendosi qualche cavalcata. E un romantico ballo con la proprietaria di un caffè. “Macho” è un gallo da combattimento con cui il giovane Rafo si guadagna qualche extra, e lo vuole assolutamente portare con sé nel viaggio verso il Texas. Deve imparare a cavalcare e Clint è ben felice di dargli qualche lezione. La trama è minima, e moltissime sono le trappole sentimentali per mettere in difficoltà un regista meno bravo. Le concessioni alla tenerezza – e a qualche occasionale oscenità – sono calcolate, messe in scena con sapienza (e grande divertimento). Clint Eastwood ormai somiglia a una scultura di Giacometti.

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