Ero il Dio della vacanza

Michele Masneri

L’amore dei fan, il successo, il sopracciglio alzato dei critici, il cinema impegnato. La versione di Jerry Calà

“Che ti devo dire”, scherza al telefono Jerry Calà col caratteristico vocione da “doppia libidine”, vocione oggi un po’ roco e malinconico forse causa clausura: “bisognerà inventare un olio solare all’amuchina”. Se ci fosse una task force sull’estate nessuno avrebbe più titoli di lui, che ha fatto più film balneari di chiunque altro, ha cantato l’avvicinamento sociale tra ombrelloni e lettini più di tutti. Sapore di mare, Rimini Rimini, Abbronzatissimi. “E poi Vita smeralda, e soprattutto Professione vacanze”, dice. Perché soprattutto? “Perché studiammo un sacco per fare quella serie. All’epoca andava molto quel telefilm americano, Professione pericolo, allora ecco l’idea. Una cosa serissima. Convocammo un gruppo di animatori della Valtour per una specie di focus group, e ne vennero fuori di ogni. La realtà superava la fantasia: corna, avventure, coppie che si separavano già in viaggio di nozze”.

 

“‘Professione vacanze’ fu un successo bestiale, lo ridanno continuamente sulle reti Mediaset d’estate”. Il culto dei fan

Alla terapia di gruppo partecipava anche un’analista. “Maria Rita Parsi, da cui ero andato in cura per qualche tempo, e che si prestò. Poi diventammo amici”. Professione vacanze “fu un successo bestiale, lo ridanno continuamente sulle reti Mediaset d’estate”, soprattutto è sottoposto al culto dei fan, che su Facebook commentano con malinconico affetto le gesta di Calà. “Qualche tempo fa abbiamo ne festeggiato il trentennale, al villaggio vacanze di Cala Corvino, in Puglia, dove lo girammo, vivendo lì per quattro mesi. Bellissimo, ma anche un incubo che poi mi ha perseguitato per tutta la vita”. Perché un incubo? “Perché il villaggio che si vedeva nella serie era molto diverso da quello che era nella realtà. Avevamo dei bravi scenografi che avevano sistemato le poche stanze in cui giravamo, il resto era un po’ una schifezza. Tante altre riprese le abbiamo fatte in un altro resort vicino. Ma la serie fu talmente un successo che un sacco di gente ci andò veramente, a Cala Corvino, e si incazzarono di brutto con me dopo”. Anche su Facebook, ancor oggi, un tale Luciano Taddei gli scrive: “Caro Jerry, la ‘sòla’ di Cala Corvino l’ho presa anche io proprio seguendo Professione Vacanze, e sono stato pesantemente insultato dai miei compagni di viaggio”, seguono faccine indignate. Adesso però pare che questa Cala Corvino sia “un posto molto bello”, dice Calà, “ci abbiamo appunto festeggiato il trentennale, ma io ho anche rischiato le botte per colpa di Cala Corvino”. A un certo punto anni dopo un certo massaggiatore a Cortina, come in un film di Jerry Calà, mentre l’attore è bello disteso sul lettino, gli dice “mo’ te meno”. Ma come. Non l’ennesima scappatella con la moglie, come vorrebbe la morfologia della fiaba del personaggio. “No, mi fa: ‘Sono stato a Cala Corvino quest’estate’”.

 

Nessuno mena mai veramente però Jerry, l’omino vacanziero che come una specie di Jacques Tati balneare ha raccontato una specie minore del gagà italico, il bruttino di successo che immancabilmente seduce le più belle, e poi scappa sui tetti come il pianista Billo, una delle tante incarnazioni di Calà che proprio a Cortina nel fatale Vacanze di Natale si fa inseguire sui fienili dai papà delle sedotte.

 

Cuccatore onorario, Calà è per ora in lockdown a Verona. “Devo sapere se posso tornare in Sardegna”

Ma è stato davvero tutto così? Una vita di conquiste e pianobar? “Beh, non proprio come nei film… quando ero giovane”, dice con modestia. “Mi sono difeso, diciamo”. Adesso quest’estate pazza di lockdown balneare lo preoccupa semmai per suo figlio, che ha 17 anni, che farà in spiaggia segregato? Solo per suo figlio si preoccupa? “Beh, ho letto che se inviti qualcuno a cena devi avere l’autocertificazione. Ma come, se cucchi una e la inviti a cena cosa devi dichiarare: cuccatore?”. Cuccatore in disarmo, Calà è per ora in lockdown a Verona. Prevede un’estate magra, “per noi che facciamo spettacoli. E un po’ per tutti, la gente starà a casa, sui terrazzini, metterà una sdraio lì, se questo è l’andazzo”. Meglio ricordare, allora. Ancora Cala Corvino, il tormentone: “Berlusconi continuava a chiedermi di fare delle cose in tv, ma io rifiutavo sempre, alla fine mi viene in mente questa serie e lo chiamiamo al telefono, me lo passano, io comincio a raccontargli: “Silvio! Si chiamerà Professione vacanze e parlerà di…”. Berlusconi: “Va bene così. Fatelo. Arrivederci, Ci ho da fare”, e mette giù, dice Calà imitando il Berlusca, rimpiangendo tempi in cui un imprenditore della tv capiva dal titolo cosa sarebbe stato un successo. E il villaggio vacanze, luogo oggi invitante come una centrale nucleare, pareva un paradisiaco centro di massimo assembramento. Di beltà, anche. Nel film c’era anche “Sabrina Salerno reduce dai successi globali per Boys”. Che estate, il 1987. Ma lì, la nemesi imprevista del cuccaggio. Tra tutte le procaci bellezze “il mio assistente, segretario, tuttofare, Maurizio Mao Motta, conosce Gegia, che nella serie faceva l’inserviente Caramella”, assistente a chilometri zero, perché l’attrice è di quelle parti; “i due si innamorano pazzamente. Si sposano pure”. Nemesi di ogni vitellonismo, rivincita femminista del “non son bello ma piaccio”, come da tormentone del Calà. Bruttino del nord, Rodolfo Valentino al contrario, Calà ha fatto talvolta il milanese, come in uno dei film più amati dai suoi fans, Yuppies uno e due – (“Velatissimo e vai fuori di gamba”, il pubblicitario Giacomino in montone e Y 10 con radiotelefono, imbruttito dal suo capo, l’eterno Dogui: e giù nostalgia). Anche lì, studio del soggetto secondo una vecchia tradizione del cinema “alto”, scuola Age e Scarpelli e Steno. “Carlo ed Enrico Vanzina ci procurarono una serie di Yuppies veri, insomma, veramente ‘rampanti’ di quell’epoca lì, professionisti milanesi, notai, con cui ci intrattenemmo per un paio di settimane. Poi chiamammo Roma: ‘dobbiamo rivedere il copione perché la realtà supera la fantasia!’”. Creatura squisitamente vanziniana, Calà a Forte dei Marmi e a Cortina mai c’era stato; vacanze? “In Sicilia, tutta l’estate, dai nonni”. Perché Calà prima di Jerry era Calogero Alessandro Augusto, nato a Catania nel 1951, poi emigrato a Milano e poi a Verona, perché il padre era interprete “all’ufficio informazioni delle Ferrovie dello Stato”. E dunque si spostava, di stazione in stazione. Di spiaggia in spiaggia, invece, sempre nella leggendaria estate 1987, “Sergio Corbucci sta girando in Romagna Rimini Rimini, e mi chiama per fare un episodio. Ma io sto girando in Puglia, gli dico. Ho solo una settimana di pausa per ferragosto. ‘Perfetto, vieni su, che giriamo a ferragosto’. Io recito con Paolo Bonacelli e Giuliana Calandra, faccio uno che assolda una prostituta e finge che sia la moglie, per convincere un imprenditore a concludere un importante affare”. Sono quei filmetti estivi con poster pre-MeToo. “C’è anche Sylva Koscina, che era stato il mio mito di gioventù. Era talmente diva, talmente famosa che faceva ormai solo sé stessa, come nel Vigile o nel Dentone (e Sordi: “Ah Silva Koscina!”). “Girava sul set tenendosi un asciugamano addosso come un peplo”. Ma la troupe è smemorata, e un giorno Calà vede la diva che fu aggirarsi spaesata, “‘non so dove cambiarmi’, non le avevano dato un camerino, il segretario di produzione poco cavalleresco così si esprime: ‘se cambi dove je pare’”. Il minimo, offrirle la sua roulotte. Ci si immagina la scena, Calà romantico con la vecchia signora. “E pensare che alla fine dell’episodio io dico quel mio tormentone, ‘è tanto che aspettavo un’occasione così’; dice Calà, e nel vocione gli cala un po’ di malinconia, forse per il ricordo e forse per quell’eterna lotta che gli attori come lui devono aver condotto, tra l’amore dei fan, il successo facile, il sopracciglio alzato dei critici e il contatto con miti veri del cinema, tra viale Ceccarini e viale del tramonto.

 

I filmetti estivi con poster pre-MeToo, di un’Italia lontana. “C’è anche Sylva Koscina, che era stato il mio mito di gioventù”

L’estate infinita, dalle spiagge della Versilia a quelle norvegesi. Sempre in quell’estate infinita del 1987, dopo Cala Corvino e Rimini, è vittima di una micidiale pellicola impegnata, Sottozero, farraginosa storia inventata da Rodolfo Sonego, principe degli sceneggiatori italiani, inventore di Una vita difficile e del Sorpasso, Cervello di Alberto Sordi secondo il celebre librone Adelphi di Tatti Sanguineti. Una storia, questa sottozero, che lo stesso Sonego riassumerà così: “Jerry è un operaio in camice bianco. Forse meno povero di quello di vent’anni fa, ma più annoiato, più depresso, robotizzato. Quando sente che a lavorare su una piattaforma petrolifera sul Mare del Nord si può guadagnare mezzo milione al giorno, decide di partire. Spera di mettere da parte il capitale sufficiente per comprarsi un bar. Ci riuscirà, però il costo sarà altissimo”. Il film era stato scritto per Sordi, avverte Sanguineti, e il contrasto non potrà essere più evidente. “Sonego volle questo regista, Gian Luigi Polidoro, che era di Bassano come lui”, dice oggi Calà, “era stato un severo documentarista pure candidato all’Oscar con un suo lungometraggio, e poi si era specializzato in film come Una moglie americana e Una moglie giapponese. “Inventore della figura degli italiani all’estero” secondo Sanguineti. “Era un vero e proprio genere all’epoca”, dice Calà. Pane e cioccolata con Manfredi, Sordi in Fumo di Londra. Film fatti anche per viaggiare, cambiare aria, fare dei sabbatici, trovare ispirazione. Piacevano, funzionavano (qualcuno più, qualcuno meno). “’Prendiamo Gianluigi che sa come girare all’estero’”, disse Sonego. Ma aveva sottovalutato Polidoro che per lui aveva un’adorazione, e voleva che si ripetessero alla lettera le battute del copione. Io invece ero abituato un po’ a improvvisare, a personalizzare. Niente. Arriviamo in Norvegia e lui comincia subito: ‘stooop’; ma erano cose proprio minime, non so, dicevo una parola al posto di un’altra, ‘vado a casa’ al posto di ‘torno a casa’, e lui bloccava tutto, le giornate si perdevano per tutte quelle interruzioni”. “Io dicevo: ‘dai Gianluigi ma è uguale’. Eh, no. Lui dalla Norvegia telefonava in continuazione a Sonego. Sonego sfinito diceva: ‘eh vabè, fagli dire quello che vuole’. Ma lui: ‘no, deve dire come hai scritto tu’. Dopo venti telefonate Sonego ha capito l’andazzo, prende l’aereo ed è venuto in Norvegia”. “Così ho avuto l’onore di girare insieme a forse il più grande sceneggiatore della commedia all’Italiana. Era un gran raccontatore di storie Sonego. Lavorava sempre in simbiosi con la moglie Allegra che batteva a macchina le sceneggiature a Conegliano veneto, dove passavano in pellegrinaggio gli industriali, locali i Benetton, gli Zoppas, a omaggiarlo”.

  

L’avventura norvegese, e lui vittima di una micidiale pellicola impegnata, “Sottozero”, farraginosa storia di Rodolfo Sonego

“E poi c’era Angelo Infanti”. Ma come, Manuel Fantoni insieme allo sceneggiatore principe. “Infanti aveva già lavorato con Sonego in un altro film di italiani all’estero, Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata. “Ed era proprio il contrasto tra i due a essere irresistibile”. Infanti “si era portato una scorta di cibo micidiale in aereo. Eravamo in prima classe nella Sas, la compagnia scandinava, e le hostess cominciano a fare strane facce, a tirar su col naso, lui apre un fazzolettone e s’era portato una frittata di cipolle, e poi una forma di pecorino. ‘Poi mi ringrazierai’, disse. E in effetti dopo aver sperimentato la cucina norvegese, dopo settimane di aringhe e renne devo dire che aveva ragione. Tutte quelle scorte arrivavano da Zagarolo, dove abitava. Mi salvò. Soprattutto sulla piattaforma petrolifera, perché la storia a un certo punto si sposta su una piattaforma. Io pensavo che avremmo girato quella parte a Cinecittà, invece la produzione disse che bisognava stare per forza lì, avevano già fatto tutti i permessi, eccetera. Per cui ci mettono su un enorme elicottero, e partiamo con questo elicottero, che comincia ad andare, andare. Io chiedo: ma quando atterra? Dicono: tra poco. Ecco adesso atterriamo. Intanto passa il tempo. Ma dove cazzo atterra? Dopo un viaggio interminabile, alla fine l’elicottero comincia a scendere verso un puntino in mezzo al mare, trecento chilometri dalla costa”. La piattaforma, una specie di punizione divina per il re dell’ombrellone. Nerboruti marinai al posto delle ragazze da spiaggia, esercitazioni fantozziane, lo spleen del nebbione. Neanche un pianobar. “Io piangevo tutte le sere. Quando calava la sera c’era un po’ di tempesta guardavo sempre la Carrà, di notte si prendeva su un canale della Rai un vecchio programma, quello dei fagioli. Infanti e la Carrà mi hanno salvato”.

 

L’avventura norvegese finisce con una storia che è puro Sonego: “una sera ad Alta, cittadina affacciata sul mare, così a nord che più a nord non si può, con lui e Infanti stiamo parcheggiando prima di andare al ristorante quando vediamo una donna sul bordo del muraglione che dava a picco sul mare. C’era con noi anche l’assistente norvegese. Ci dice: eh quella si vuole proprio suicidare. A noi sembrava che guardasse solo il mare, ma l’assistente insiste: ah quella si sta suicidando, si, si, non c’è dubbio. Attacca tutta una storia sull’altissimo tasso di suicidi tra i norvegesi, allora noi tre ci convinciamo, andiamo lì e la portiamo via. La portiamo con noi al ristorante, le offriamo la cena, le raccontiamo delle storie per tirarle su il morale. Ma lei, appena si riprende un po’, inizia a dire: ‘italiani tutti ladri, italiener tutti mafiosi, ignoranti, non come noi norvegesi’. Una lagna infinita. Noi allora sai che abbiamo fatto? L’abbiamo riportata esattamente dove l’avevamo trovata, sul ciglio del muraglione. L’abbiamo lasciata al suo destino”. Jerry ride, e poi improvvisamente chiede: ma insomma quest’estate che succederà? Devo sapere se posso tornare in Sardegna”. Ma non la Sardegna dei vip: la vita vera non è smeralda. “Io vado a Baja Sardinia, mi porto il gommone. Ci saranno i traghetti?”.

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