Abel Ferrara e Willem Dafoe al festival del cinema di Berlino (foto LaPresse)

“Parasite” chi?

Mariarosa Mancuso

Il festival di Berlino è una cittadella di cinefili arroccati. Come se agli Oscar non fosse successo nulla

Film contemplativi, alla Berlinale 2020. Tanto contemplativi che il film di Giorgio Diritti sul pittore matto Ligabue pareva un film d’azione (“Volevo nascondermi” doveva uscire in sala questo giovedì, rimandato per coronavirus assieme a “Si vive una volta sola” di Carlo Verdone e “Tornare” di Cristina Comencini). La lentezza come marchio artistico piaceva a Carlo Chatrian quando dirigeva il festival di Locarno. A Berlino non ha cambiato idea: resiste arroccato nella cittadella cinefila. Che importa se tutto intorno il cinema e i festival stanno cambiando? Un film coreano dotato di trama e colpi di scena che trionfa agli Oscar – e piace agli spettatori dopo esser piaciuto ai critici – dovrebbe essere un segno. Se l’intenzione non è la lenta morte del cinema e dei festival.

 

Come se non fosse successo nulla. In concorso – con tutti gli onori che si devono (ma per quanto tempo ancora? Non c’è la prescrizione) al regista che nel 1992 girò “Il cattivo tenente” – c’è “Siberia” di Abel Ferrara. “Un troll”, scrive Wendy Ide su “Screen International”: immagini tanto sconnesse sembrano voler provocare una reazione violenta nello spettatore (eppure, incredibile a dirsi, nell’italica periferia dell’impero resistono irriducibili fan).

 

Parlando di uomini (e non di caverne, mostriciattoli nudi, padri redivivi, deliri cosmici) c’era “Le sel des larmes” di Philippe Garrel, ultimo sopravvissuto della nouvelle vague, quindi osannato qualsiasi cosa faccia. Di solito, la storia di un giovanotto incerto tra due o tre fidanzate. “Lacrime amare” – proponiamo questo titolo a chi volesse distribuirlo in Italia, per conservare il sapore di melodramma – non fa eccezione. Se non per il mestiere del rubacuori: non il solito intellettuale bensì un falegname che vive in provincia, e a Parigi frequenta una celebre scuola di arti applicate. Il sogno di suo padre, falegname pure lui. Le ragazze fanno da contorno, e non si capisce perché cadano immediatamente ai suoi piedi: non è bello, non è simpatico, è piuttosto goffo. Epoca incerta, fotografia in bianco e nero.

 

Parlando di donne, sempre in concorso, c’era “Undine” di Christian Petzold, regista tedesco che alla Berlinale ha sempre un posto assicurato (ogni festival ha i suoi soliti noti). Una ragazza bionda viene lasciata dal fidanzato, e reagisce male: “Se te ne vai mi uccido”, gli dice al tavolino del bar. Poi va a lavorare, fa la guida al museo e racconta ai visitatori lo sviluppo urbanistico di Berlino. Torna al bar, e il fedifrago se n’è andato. “Undine” – è il nome della ragazza, avremmo dovuto capire che c’entrava un po’ di folklore nordico – trova subito un altro corteggiatore. Segno del destino: un acquario con pesci e un piccolo palombaro si rompe e li travolge. L’idillio continua, e lui – scopriamo – fa proprio il saldatore subacqueo. Parrebbe vero amore, e anche una versione della “Sirenetta” per intellettuali: serve un bacio vero per restare sulla terra, se no devi tornare sottacqua con la pinna, le gambe spariscono. Con un sovrappiù di crudeltà: la ragazza torna dal primo amore, ben ri-fidanzato in una casa con piscina, e lo annega. Poi attira sottacqua anche il secondo, o almeno ci prova perché il film grazie al cielo finisce.

 

Parlando di mucche, c’era “First Cow” di Kelly Reichardt, regista che ama il west e la frontiera, purché al rallentatore. Qui abbiamo un cuoco senza lavoro e un cinese vagabondo, strana coppia nell’Oregon del 1820. Un inglese possiede la prima mucca del circondario e loro mettono su una piccola impresa, con il latte rubato. Vale come critica allo spietato capitalismo, quindi molti applausi.