Thierry Frémaux, direttore del Festival di Cannes (foto LaPresse)

Poche donne? Troppe donne? Il solito dubbio amletico assilla anche Cannes

Mariarosa Mancuso

“Trovo strano che platee composte perlopiù di giornalisti maschi mi facciano notare che non ci sono abbastanza registe in concorso”, aveva detto il direttore del Festival, Thierry Frémaux

Già al festival di Cannes si sentiva arrivare, quando il direttore Thierry Frémaux ha avuto un momento di irritazione, frenato a fatica. Si polemizzava, al solito, sulla questione delle donne: ce ne saranno abbastanza in concorso? Ce ne saranno abbastanza tra i selezionatori? Ce ne saranno abbastanza nell’organizzazione (tutti i festival ormai hanno firmato l’impegno “50/50 by 2020”, vale a dire parità entro il 2020)? “Trovo strano che platee composte perlopiù di giornalisti maschi mi facciano notare che non ci sono abbastanza registe in concorso”, disse Frémaux, senza peraltro frenare la bellicosità dei maschi femministi (tipologia che invita alla fuga, sempre e comunque).

  

La sentivamo arrivare, ed eccola qui, l’ultima delle rivendicazioni (“l’ultima finora”, aggiungerebbe il saggio Homer Simpson, che sempre si aspetta il peggio del peggio). Una ricerca del Center for the Study of Women in Television and Film certifica che i critici di cinema americani sono molto più numerosi delle signore che fanno lo stesso mestiere (prima di chiamarle “critiche” resisteremo eroicamente). Il rapporto è di due a uno, un po’ meglio di qualche anno fa ma ancora non ci siamo. Per questo il rapporto è stato intitolato “Thumbs Down”. Evoca i “Two Thumbs Up” di Roger Ebert e Gene Siskel, quando nei loro programmi televisivi erano entusiasti dello stesso film, e deplora le disuguaglianze di genere. Pollice giù, vergogna e sdegno.

  

Il clima ostile ha fatto sì che non si parlasse, o quasi, di un bel film visto alla Quinzaine des réalisateurs. Oltre, si intende, a “Le daim” di Quentin Dupieux, regista che già aveva dedicato il suo “Rubber” a uno pneumatico assassino (per amore di una ragazza). In “Le Daim”, con Jean Dujardin che all’inizio sembra sciocco e poi rivela la sua pericolosità, a suscitare gli istinti omicidi è invece una bella giacca di daino con le frange.

 

Il film di cui era meglio non parlare, se non a rischio di essere tacciati di intelligenza con il nemico, era “Une fille facile” di Rebecca Zlotowski. Una ragazza facile, niente di più e niente di meno, non si scappa. Un racconto deliziosamente senza morale, su due cugine: una sedicenne che non sa cosa fare di sé, e una ventiduenne che sa benissimo come sfruttare la propria avvenenza per salire a bordo degli yacht (siamo a Cannes) e permettersi borse costose e altri lussi.

 

Ad aggiungere piccantezza, la cugina grande e sveglia era Zahia Dehar, modella francese che una decina di anni fa fu coinvolta in uno scandalo (lei era minorenne, i maggiorenni paganti erano calciatori della nazionale). Una barbie di origine algerina, sorprendentemente capace, nel film, di citare Marguerite Duras. E anche di distinguere un romanzo dall’altro, quando la provocano. Ma prima era stata lei a provocare, buttando lì il nome come se fosse la marca di un profumo.

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