Il regista sudcoreano Bong Joon-Ho

Un'altra Palma d'oro in oriente

Mariarosa Mancuso

A Cannes vince “Parasite” del sudcoreano Bong Joon-ho. Pedro Almodóvar che i pronostici davano vincitore, deve accontentarsi di Antonio Banderas miglior attore. Non sarà contento

L’ultimo toto-Palma si fa quando gli invitati salgono gli scalini del Palais per la serata finale. C’era Quentin Tarantino, che con il senno di poi voleva solo prolungare la sua vacanza in Costa Azzurra. Niente premi per “C’era una volta a Hollywood”, a 25 anni esatti dal trionfo di “Pulp Fiction”. Neppure per i suoi magnifici Leonardo DiCaprio e Brad Pitt, stelle cadenti nella Los Angeles del 1969 (mentre Charles Manson tramava la sua spedizione punitiva a Bel Air).

 

La Palma d’oro per il miglior attore è andata a Antonio Banderas, controfigura di Pedro Almodóvar in “Dolor y gloria” (già nelle sale, in contemporanea con il festival: ogni tanto una scelta sensata). I pronostici davano il regista spagnolo vincitore, come risarcimento per un paio di sgarbi ricevuti in passato. Non sarà contento, dopo un film-confessione che, a differenza del prototipo felliniano, è costruito più sul mal di schiena che sul narcisismo.

A “Tutto su mia madre” - impeccabile film-catalogo delle ossessioni almodovariane: la movida con i travestiti e il melodramma di Tennessee Williams, e in mezzo uno strepitoso monologo contro l’autenticità - la giuria preferì “Rosetta”: l’esordio degli allora sconosciuti fratelli Dardenne. Premiati anche quest’anno, dopo due Palme d’oro e un Grand Prix, per la regia di “Le Jeune Ahmed”, storia di un fondamentalista ragazzino che accoltella l’insegnante. “Un inno alla vita e alla speranza”, hanno dichiarato con sprezzo della logica.

 

Per il secondo anno, la Palma d’oro è andata in oriente. L’anno scorso a Hirokazu Kore’eda (“Un affare di famiglia” il titolo del film, tratto da un suo romanzo: non il solito giapponese da sbadiglio). Quest’anno al coreano Bong Joon-ho per “Parasite”, che oltre a una bellissima storia di servi e di padroni (di quelle che si sa come cominciano ma non si immagina come finiscano) aveva qualità sconosciute a gran parte dei film in gara. L’energia prima di tutto. Oltre al senso dello spettacolo, al totale disinteresse per gli indugi del cinema d’autore, al gusto per la satira e per il grottesco.

 

Non era l’unico film di genere. Arnaud Desplechin, dopo svariati e spesso estenuanti esercizi intellettuali con “Roubaix, une lumière” ha azzeccato un poliziesco. E c’era “Les Misérables”, film di banlieue - nello stesso quartiere dove Victor Hugo fa vivere la povera Cosetta - firmato Ladj Ly: premio della giuria, e diritti già venduti per il remake americano. Altri tentativi sono falliti miseramente, come lo zombie-movie “I morti non muoiono” di Jim Jarmusch. E la fantascienza dell’austriaca Jessica Hausner, con “Little Joe”: piante che dovrebbero rendere felici, ma provocano danni (tra “Il giorno dei trifidi” e “L’invasione degli ultracorpi”, per avere due classici di riferimento). E’ servito per dare a Emily Beecham la Palma come migliore attrice - carina, gelida, un guardaroba in colori pastello da rubare e nulla più.

 

Era l’anno delle pari opportunità, con quattro registe in concorso. La senegalese Mati Diop ha vinto il Grand Prix con “Atlantique”: i migranti morti in mare tornano con gli occhi bianchi degli zombie. Miglior sceneggiatura a Céline Sciamma per “Portrait de la jeune fille en fleur”, suo primo film in costume: gioco di sguardi tra una pittrice e la ragazza da ritrarre. Il dipinto dovrebbe servire per esibirla al futuro marito, ma le due vengono travolte dalla passione prima che i colori abbiano il tempo di asciugare.