Carlo Chatrian, direttore del Festival di Locarno che, il prossimo anno, sarà direttore artistico del Festival di Berlino (foto LaPresse)

Locarno è il festival della schizofrenia cinefila in cui “televisivo” è una parolaccia

Mariarosa Mancuso

Speriamo in un cambiamento l’anno prossimo, il direttore Carlo Chatrian è in partenza verso la Berlinale

Locarno è l’ultimo rifugio del festivaliero cinefilo, che appena esce dalla sala invece di stropicciarsi gli occhi e riabituarsi alla luce – vediamo il primo film alle nove del mattino, a Cannes anche otto e mezzo – declama la dotta recensione con le virgole, gli incisi, lo “specifico filmico”. “Televisivo” è l’insulto principe (hanno ancora l’apparecchio in salotto con il centrino sopra, bisogna aver pietà). Il pubblico è sempre “grande pubblico”, detto con disprezzo: se un film piace a più di cinquanta persone si squalifica da solo.

 

Speriamo in un cambiamento l’anno prossimo, il direttore Carlo Chatrian è in partenza verso la Berlinale. Speriamo di rivedere, nella piazza che nei momenti buoni ospita 7.000 persone, film come “Little Miss Sunshine” di Jonathan Dayton e Valerie Faris, che da Locarno nel 2006 cominciò la corsa verso l’Oscar (adesso il film prendono il volo dalla Mostra di Venezia: ben piazzata nel calendario, gode quest’anno anche per gli errori di Cannes).

 

A Locarno 2018 c’era invece “Blaze” di Ethan Hawke. Diretto, prodotto e sceneggiato dall’attore con la collaborazione di Sybil Rosen, che con il cantante country Blaze Foley ebbe una storia. Stavamo per scrivere “un amore contrastato”, come nei romanzi ottocenteschi: fa questo effetto la fotografia del film, vecchiotta e immersa nelle luci del tramonto. Se non avete mai sentito il nome del giovanotto, sappiate che passò la vita a suonare nei bar di Austin, che morì quarantenne nel 1989 forse di veleno forse di coltello (il film suggerisce un colpo di pistola), che è molto amato e apprezzato dai musicisti.

 

 

Tutto suggerisce “vanity movie”: l’artista maledetto, il regista che produce da sé, la vedova che collabora. (Lo diciamo per esperienza, e in questi casi vorremmo averne un po’ meno, e sorprenderci di più). “Blaze” alterna la canzone cantata dal vivo, l’ispirazione e la composizione della medesima, i litigi di coppia con bottiglia, i commenti dell’amico che coltiva la memoria dello scomparso. Una volta, due volte, tre volte, quattro volte. Mai un cambiamento di ritmo, mai un’idea diversa. Ma ai festival servono anche le star da fotografare, e se le star hanno un film mediocre da esibire va bene lo stesso.

 

L’altra star fotografabile – si fa per dire, bisogna ricordarsi com’era in “Harry, ti presento Sally…”, poi fare un bel respiro e cercare i lineamenti sotto il botulino – era Meg Ryan. Omaggiata con la proiezione di “Insonnia d’amore”, che nasce come omaggio a “Un amore splendido” di Leo McCarey, regista della Hollywood classica a sua volta omaggiato nella retrospettiva. Locarno è anche il festival della schizofrenia cinefila. Da una parte i duri e puri condannano i troppi film americani proiettati in piazza “per il grande pubblico”, dall’altra si mettono in coda per vedere i vecchi film del regista che ha inventato “Stanlio e Ollio”.

 

“Un amore splendido” racconta il colpo di fulmine tra Cary Grant e Deborah Kerr, che si incontrano a bordo di una nave mentre entrambi sono “fidanzati per sposarsi”. Per non prendere decisioni avventate, si danno appuntamento di lì a sei mesi, all’Empire State Building. Lui è già sulla terrazza quando lei scende dal taxi, e siccome madame sta già sognando la terrazza e non guarda dove mette i piedi, viene travolta da una macchina e resta paralizzata. Lui non la vede arrivare lassù, e si convince che non era amore. Poi si ritrovano, e lui resterà accanto a lei, senza badare alla sedia a rotelle. E giù lacrime. Più che nel film precedente con la stessa trama, sempre diretto da Leo McCarey nel 1939 con il titolo “Love Affair”: il melodramma era corretto con il musical e i battibecchi da screwball comedy.

 

Va velocissimo anche “Ruben Brandt, Collector” girato dall’ungherese Milorad Krstic con un po’ di disprezzo per la psicoanalisi, e troppa storia dell’arte. Grazie all’animazione, entriamo nei quadri celebri, e non c’è angolo di schermo troppo piccolo per non ficcarci una citazione. Pure nel frigorifero, dove i ghiaccioli per il whiskey hanno la forma di piccoli Hitchcock panciuti.