Un momento di “... E tu vivrai nel terrore! L'aldilà” (1981), seconda parte della "Trilogia della morte" di Lucio Fulci

Di fronte al nulla

Manuela Maddamma

L’orrore, uno stato di coscienza visionario che snida il male dal suo nascondiglio. I film di Lucio Fulci riscoperti dai Cahiers du cinéma

È sufficiente che il prete appaia per sregolare gli organismi e accelerare la decomposizione della carne, come una inversione della guarigione del lebbroso da parte di Cristo nel “Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini. Il prete è il morto vivente magico da cui origina la catastrofe di “Paura nella città dei morti viventi”, il primo film della cosiddetta “Trilogia della morte” del regista romano Lucio Fulci (1927-1996).

 

Una sterminata conoscenza delle opere cinematografiche,
unita a una cultura
che andava da Freud (che detestava)
a Lovecraft

Facciamo qualche passo indietro, anzi, parecchi, al giorno in cui Fulci, giovane studente al Centro sperimentale, sostiene l’esame finale davanti al conte Luchino Visconti. Il grande regista è supercilioso, sfida l’allievo che pure ha ammesso col massimo dei voti, e Fulci, mostrando già allora un temperamento ribelle, indica tutte le sequenze di “Ossessione” (il film di Visconti del ‘43 tratto da “Il postino suona sempre due volte” di James M. Cain) che, a suo dire, sono “copiate” da Renoir. L’aneddoto rivela alcune qualità di Fulci, che lo caratterizzeranno per tutta la vita: una sterminata e aggiornata conoscenza delle opere cinematografiche, unita a una cultura letteraria ampia ed eclettica, che andava da Freud (che detestava, accusandolo di essersi inventato la psicanalisi per pagarsi il vizio della cocaina) a Lovecraft – mentre disprezzava Stephen King – a Patricia Highsmith, a Edgar Allan Poe. Era anche un grande intenditore di jazz e un velista dilettante ma competente. E’ a questa figura lungamente sottovalutata, regista prolifico che, all’inizio della carriera, si è formato come aiuto di Steno, e poi ha firmato molte pellicole di successo del duo Franchi e Ingrassia, che la più prestigiosa rivista di cinema al mondo, i sofisticati Cahiers du cinema, nel numero speciale dedicato al festival di Cannes dello scorso maggio ha dedicato un’ampia retrospettiva, soffermandosi specificatamente sui suoi film medianici e orrorifici. Indubbiamente, è questa la zona in cui il genio di Fulci, dopo anni di compromessi e di limitazioni, esplose con scioccante originalità.

 

“La trilogia della morte”, dicevamo, che lo stesso Fulci, che non esitava a denigrare le sue opere meno riuscite, reputava tra le sue migliori. A una prima vista superficiale, l’horror di Fulci potrebbe sembrare derivativo, un inserirsi in una corrente – quella del gotico italiano – che prosperava già dalla fine degli anni Cinquanta. Del resto il primo film dell’orrore di Fulci è “Zombi 2”, che già nel titolo suggerisce l’idea del sequel, rispetto al grande successo di “Zombi” di George Romero. Al contrario, è la grande produzione di horror degli anni Settanta e Ottanta, Argento e Romero inclusi, che non ha alcunché a spartire con i film di Fulci, che innanzitutto non contengono nessun messaggio politico, sociale, e nessuna metafora, come invece era obbligatorio, e talvolta scontato, in quelli. L’orrore di Fulci non è specchio di una società alienata, o di un’infanzia turbata (anche se i bambini sono presenti, ma come citazioni letterarie, come messaggeri dell’aldilà – si veda “Il giro di vite” di Henry James) è più una chiave mistica, un codice di conoscenza, un testo. Non è un caso che, riprendendo un topos lovecraftiano, in due film della trilogia il male è annunciato dalla profezia scritta in un antico libro: il libro di Enoch in “Paura nella città dei morti viventi”, e il libro di Eibon in “…E tu vivrai nel terrore! L’aldilà”. L’orrore in Fulci è dunque una acuta capacità di lettura, uno stato di coscienza visionario, un superare la soglia della percezione che ci nasconde gli strati profondi, abissali del mondo che ai più restano illeggibili.

 

Il suo orrore non è specchio di una società alienata, o di un'infanzia turbata, è più una chiave mistica, un codice di conoscenza

In una delle scene più citate di “Paura” – anche da Quentin Tarantino in “Kill Bill vol. I” – una ragazza, semplicemente alla vista del prete suicida, lacrima sangue. Dunque è la visione a essere intaccata e ferita. Il cinema horror di Fulci è anche una trasformazione dello sguardo che inaugura una rottura stilistica insanabile nella sua produzione. Un punto di non ritorno. Così si spiega anche, ne “L’aldilà”, la veggente cieca dagli occhi bianchi. Lei conosce la profezia malefica del libro di Eibon, e guiderà la protagonista del film fino alla soglia dell’invisibilità, del nuovo sguardo, in una sorta di landa desolata eliotiana dove le tinte sono grigie, i colori prosciugati, la volontà di vivere spenta e lo stesso confine tra vita e morte dilegua.

 

Un indizio importante della particolarità della concezione che Fulci aveva della visione come precognizione e allucinazione, lo ritroviamo già in un film del ‘77, “Sette note in nero” in cui ritorna – coincidenza forse non casuale – la smagliante Jennifer O’Neill che era nel cast de “L’innocente” del suo ex docente del Centro sperimentale, Visconti, uscito nelle sale solo l’anno prima. In questo film, che nella forma esteriore è un giallo, come indica il titolo che richiama le numerazioni dei primi gialli di Dario Argento, una donna è letteralmente abitata dalle visioni. Bambina, in gita a Firenze, al suono delle campane di Santa Maria del Fiore, vede il suicidio della madre che si getta dalla gessosa scogliera di Dover. La dislocazione dei due eventi è colmata dalla visione. Adulta, appena sposata con un ricco storico dell’arte, mentre è in macchina e si reca in una villa di lui, entrando in un tunnel ha dei frammenti di visione: un salotto rosso, una rivista, uno specchio rotto, una lama di luce che si ritira, l’immagine di una madonna. Conoscendo non completamente la sua chiaroveggenza, crede di aver visto scene dal passato, mentre, con terrore, si renderà conto che questi frammenti andranno a comporre il suo assassinio. Già da questo espediente di trama, scorgiamo il tentativo, che Fulci spingerà alle estreme conseguenze nella trilogia, di scomporre la sintassi visiva. L’occhio, e dunque la cinepresa, non è più connesso a un corpo o vincolato a una narrazione logica, ma è libero di saltare, di sanguinare, di fissarsi, di anticipare (“la spiegazione nei minimi dettagli di un delitto prima che venga commesso” come dice un amico alla protagonista) o posticipare, di alludere e rivelare. E la fine del film, come nei primi due episodi della trilogia, non coincide con il finale della storia, ma nel primo con la rottura della visione, espressa dalla spaccatura grafica sullo schermo, e nel secondo con l’ingresso dei due protagonisti, in fuga dagli zombi, in un mondo decolorato, l’aldilà in cui le risorse dell’occhio sono consumate, estinte. Ma questa scomposizione visiva, questo dissesto dello sguardo – che spesso viene punito: celebri in Fulci, si pensi a quella di “Zombi 2” della scheggia di legno che lo trafigge, sono le scene di efferatezze proprio ai danni dell’occhio – non è un artificio tecnico e stilistico, è invece quell’allargamento indispensabile del campo morale, quella capacità di vedere il male che, paradossalmente, lo genera o, per meglio dire, lo snida dal suo nascondiglio. “In questo preciso momento in una città stanno accadendo cose terribili, cose che lei non può neanche immaginare”, dice la medium Theresa di “Paura” all’investigatore. La città si chiama Dunwich, come quella di un racconto di Lovecraft, ma potrebbe essere anche la Tebe di Edipo, ogni città in cui il male si è dato convegno, e in cui accade lo scandalo della sua visione paralizzante e contagiosa. Già nell’abbigliamento – sempre curato e rivelatore in Fulci – la diversità di veggenza è evidente: Theresa indossa un abito lungo nero, e porta al collo, come ciondolo, un ex voto con due occhi. L’investigatore ha il classico impermeabile, e infatti si rivelerà ottusamente refrattario a ogni spiegazione soprarazionale, attribuendo un decesso durante una seduta spiritica alle droghe anziché all’invasamento. L’investigatore è ancora legato all’idea della causa ed effetto, come lo era Sherlock Holmes per cui, “dato un fenomeno, eliminato l’impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, sarà la verità”. Ma appunto, il possibile e l’impossibile rispondono alle leggi della natura, all’impenetrabilità dei corpi che nascono e muoiono da qualcosa e per effetto di qualcosa. Non così in Fulci, che “concepisce un terrore senza oggetto, capace di nascere dal niente, quello stesso nulla che portano in sé gli zombi, forme cave e negative” come scrive il critico dei Cahiers.

 

Concepisce un terrore senza oggetto, capace
di nascere dal niente,
lo stesso nulla che portano in sé gli zombi, forme cave e negative

E ancora: “La paura ha vinto la partita, e si è infiltrata ovunque, rendendo impossibile ogni riconciliazione, infettando ogni rapporto”. Tanto è vero che in tutti i film della trilogia, l’elemento più caro, perché più vulnerabile, di un legame familiare, il figlio, o comunque le figure infantili, non sono risparmiate: anch’esse sono contaminate. Nell’ultimo, “Quella villa accanto al cimitero”, dopo l’uccisione della madre e del padre, il bambino, che già aveva avuto contatti con creature ultraterrene, si ricongiunge con i morti (ma non con i genitori): ed è solo in quel momento che comprendiamo che la sua vita era apparente, la sua salvezza un’illusione. Egli era contaminato fin dal principio, dalla visione, che non preserva e non salva, assorbe, omologa al male nel momento stesso in cui lo rivela. “L’anima che anela all’eternità deve sottrarsi al giogo della morte. Tu, o viandante, alle soglie delle tenebre, vieni”, recita la lapide di “Paura” nel cimitero di Dunwich, ed è tanto un invito a una nuova dimensione quanto un epitaffio. In obbedienza al pessimismo dell’horror, pessimismo che Fulci non sovverte, ma amplia a nuovi orizzonti, la nuova dimensione coincide sempre con il male, ma è un male che, più del bene col suo sommo ordine, offre una sensazione di libertà, di infinità, di scoperta. Da un lato infatti una delle profezie dice: “Guai a chi aprirà una delle sette porte dell’inferno, perché attraverso quelle porte il male invaderà il mondo”. Ma dall’altro, nel finale dell’“Aldilà”, la voce fuori campo avverte: “Ora tu affronterai il mare delle tenebre e ciò che in esso vi è di esplorabile” e il commento musicale si fa elegiaco, quasi sereno. “L’orrore è pura idea”, dichiarava Fulci, e aggiungeva, “si fonda sul dubbio”. Ed ecco dunque che l’intensificazione massima dell’orrore è l’idea più pura, il dubbio più acuto: l’incertezza tra vita e morte, tra tempo ed eternità, tra noto e ignoto, tra realtà e sogno. Si scopre dunque che la visionarietà di Fulci, riconosciuta anche dai suoi critici più negativi, non sta soltanto nel figurativo, nella violenza e ingegnosità degli effetti dovuta a un maestro dell’epoca precedente

Insieme con Fellini
(su tutt'altro versante)
è il regista più eccessivo del nostro cinema, quello che più usa l'immagine per metterla in crisi

alla grafica digitalizzata, qual era Giannetto De Rossi, ma alla potenza dell’idea e del dubbio. Il décor fulciano è sempre accurato, o perlomeno adeguato, anche negli ultimi film in cui dovette lavorare con budget risibili, ma seguendo un’intuizione di Mario Bava non “fa scenografia”, ma riflette il tono psicologico del momento, lo restituisce in maniera quasi espressionista. Ma se in Bava e in Argento questa “scenografia vivente”, posseduta, incanta e prende il sopravvento, in qualche misura depotenziando l’orrore, Fulci mostra dopotutto di non credere alla possibilità di mettere in scena il male, sia pure sontuosamente ed espressionisticamente. Il male, infatti, non sta nelle cose, ma è come un etere, un qualcosa che respira e che le attraversa senza mai depositarsi. Ecco allora che il décor statico, pittorico, di Bava e Argento si squarcia, si scompone attraverso continue, nuove irruzioni del male, che sembra giocare sempre al rilancio con i sensi dello spettatore, e con la sua logica. Anche da questo punto di vista, insieme con Fellini (su tutt’altro versante naturalmente) Lucio Fulci è il regista più eccessivo del nostro cinema, quello che più usa l’immagine per metterla in crisi. Ed è questa la ragione per cui i momenti più alti del suo cinema sono quelli in cui il film testimonia di questa crisi, di questa complessità, e tradisce la sua missione. Una delle scene più memorabili, ad esempio, dell’“L’aldilà”, oltre al citato finale, è l’incontro della protagonista Liza, su un lungo ponte sul mare, con la cieca veggente Emily e il suo pastore tedesco. E’ una scena che sembra stare a sé, sconnessa dalla storia, come un’interferenza. Eppure esprime meglio di tutte le altre raccapriccianti scene quel senso di inquieta transitorietà, e i caratteri di speranza e di minaccia che tralucono nelle vite degli uomini. In questa sequenza anche il male sembra congelarsi, la profezia invalidarsi, e non sappiamo più se stiamo guardando un film dell’orrore o semplicemente riepilogando il nostro passato fino al giorno presente, dicendo a noi stessi: “Siamo arrivati fino a qui, su questa strada che sembra interminabile e che costeggia un mare altrettanto sterminato. Chi è colei che mi si fa incontro?”.

La risposta a questa domanda non è alla portata di nessuno, ma che tra tanti appuntamenti mancati nelle nostre esistenze, a questo particolare appuntamento non si sfuggirà: questo è, forse, l’orrore.