Debora Massari, nuova assessora al Turismo della Lombardia, col padre Iginio nella pasticceria di famiglia a Brescia nel 2019 (foto Getty) 

Il Foglio Weekend

L'Italia del magna magna. L'overtourism del cibo che ha ingurgitato il paese

Michele Masneri

Focaccerie, street food e altri incubi. E c'è anche un pasticcere di governo, Iginio Massari. La figlia Debora è la nuova assessora al Turismo della Regione Lombardia 

Piatto ricco? Mi ci ficco, diceva un antico adagio di derivazione pokeristica ormai ignoto alla generazione Z, eppure chi avrebbe detto anche solo pochi anni fa che l’Italia sarebbe diventata la grande mangiatoia d’Europa anzi del mondo? Secondo l’Enit-Agenzia nazionale del turismo, l’indotto legato al cibo e all’enogastronomia è salito del 176 per cento in dieci anni. Se l’esperienza culinaria era una nicchia agli inizi del nuovo millennio, adesso è il trend dominante, con 365 milioni di euro spesi l’anno scorso per il cibo dai viaggiatori in visita. Il New York Times certifica la “foodification” dell’Italia, una specie di turismo particolare sbafatorio che non esisteva 20 anni fa e che si sta “magnando” il paese: il titolo di un recente articolo è “Gli spritz e le carbonare che hanno divorato l’Italia”. Altro che welcome to meraviglia. Welcome to tagliatella. Lontani i tempi in cui la cucina italiana faticava a farsi strada con Gualtiero Marchesi e il suo risotto di vera foglia d’oro… e il vino italiano a differenziarsi dal francese. E pionieri come Veronelli in giro a scoprire trattorie e ristoranti poi “stellati”. Andare in uno “stellato” oggi è un normale must come il tatuaggio e le onnipresenti “bollicine” (parola inventata da Maurizio Zanella, paladino del Franciacorta italiano, che si è autodenunciato, pentito dell’invenzione – della parola, non dello spumante). Però si capisce; ormai in Italia non si viene più per Raffaello e Leonardo, ma per un bel panozzo. E sì, passeggiando per piazza del Duomo a Firenze ci sono molte indicazioni per la cattedrale, in tutte le lingue del mondo, ma le orde sono dirette soprattutto verso le focaccerie. “Ormai visitare il Colosseo è solo una scusa tra una amatriciana e una cacio e pepe” dice Roberto Calugi direttore generale della Fipe, federazione pubblici esercizi. “Vengo per il cibo, non per la storia”, dice un turista americano al Times. Trionfa per esempio proprio a Firenze la catena Antico Vinaio ormai oggetto di studi universitari: con 49 punti vendita nel mondo da Los Angeles a Dubai e un fatturato di 90 milioni, nasce nel 1989, quando la famiglia Mazzanti ha preso in gestione una piccola rosticceria ma diventa celebre con l’erede Tommaso Mazzanti, che capisce che mica serve il panino, serve lo show, e con accento toscano si butta in stories e controstories mentre prepara focacce al ritmo di: ‘bada come la fuma!’, risultato 1 milione di follower e pure un sacco di imitazioni. L’antico Vinaio ormai ha infatti suoi pezzotti, del resto nel solo centro di Firenze si contano “La schiacciata”, “La focacceria”, “Le focaccine”, “La schiacciateria”, “Fo Caccia”, “Fermentino Schiacciata e dintorni”, “Dal vinaio”; “La divina schiacciata”. Senza contare le prosciutterie e altre forme di negozi ignote un tempo. Coi nomi il genio del marketing italico non conosce sosta (un tempo a Roma si andava da “Lasa Gnam” mentre sempre nella capitale c’è un negozio “C’è pasta per te”). Il Vinaio e i suoi derivati, il fatidico “street food”, spopola ovunque, ed è responsabile anche di quelle code che vediamo ormai formarsi agli angoli delle strade, come per i nuovi iPhone negli anni d’oro. Non si sa se vengono astutamente creati apposta, per far credere all’eccezionalità del prodotto, ma questi assembramenti alimentari, a parte i casi di carestie e pandemie e assalti ai forni manzoniani, sono un segno urbano che non avevamo mai sperimentato in Italia, e che si sta espandendo a macchia d’olio (ovviamente extravergine). La fila, in cui tutti si fotografano in un climax di eccitazione, come se andassero al Met Gala o a ricevere la Légion d’Honneur e non invece a ungersi con un paninazzo, lascia poi sul terreno una quantità di monnezza e cartacce che neanche sette concerti di Taylor Swift, ma le amministrazioni comunali non sanno o non vogliono debellare il fenomeno. A Firenze e Palermo i sindaci hanno bloccato nuove licenze sbafatorie, ma è troppo tardi. Perché poi queste paninoteche instagrammatiche scacciano spesso ristoranti “normali” o anche “stellati” (è chiaro che a Milano e Roma si guadagna molto di più diventando paninari per TikTok che non raffinati chef per residenti). Proprio nella capitale celebre qualche mese fa il caso della Rosetta, storico ristorante di pesce dalle parti del Pantheon che ha chiuso per sempre, seppellito dalla burocrazia e dallo street food. Il patron Massimo Riccioli ha deciso di lasciar perdere dopo una multa di 5.000 euro comminata perché, ha detto, la sua tenda esterna sforava di qualche centimetro le misure regolamentari, mentre i turisti magnaccioni che ciondolano intorno ai loro panini instagrammatici intasano le vie peggio di Suv, gettando tutto a terra. L’overtourism culinario poi si differenzia per città, ed è molto fantasioso anche come format. C’è il ristorante che diventa famoso per i social, e i cuochi influencer che diventano talmente famosi da creare un ristorante, come il brizzolato romanaccio Max Mariola (3,1 milioni di follower) , che ha aperto in Brera a Milano (sulla scia della misteriosa moda del mangiar romano a Milano). Il Times racconta il problema concentrandosi su Bologna e Palermo. La prima è diventata uno “zoo umano” dove nelle vetrine ci sono le “sfogline”, signore che tirano pasta davanti a un vetro in favore di turista h24, una specie di installazione, una performance, tipo Marina Abramovic, tipo “The sfoglina is present”. Si va a Bologna a vedere le sfogline in vetrina come si andava ad Amsterdam per vedere le prostitute un tempo. Ma poi, in entrambi i casi, si consumerà? A Palermo, via Maqueda è intasata di australiani che divorano pane e panelle Dop. Napoli non ne parliamo: ormai il centro storico è sopraffatto dalla quantità di mangiatoie “local”, che, complici la moda per tutto ciò che è partenopeo degli ultimi anni – da “Mare Fuori” al calcio – ha trasformato la città sul golfo in un grande Eataly a cielo aperto. Ormai anche l’ultima casalinga del nord (non solo di Voghera) conosce la differenza tra Mimì alla Ferrovia e Concettina ai Tre Santi, tra calzone e parigina (ma magari non è mai stata al Museo Archeologico); tutti sanno il tormentone di “Con mollica o senza” di Donato De Caprio, il paninaro da 1 milione di follower, detti “gli smollicati”, che ora ha aperto a Milano in piazza Diaz (l’apertura a Milano è la fase trionfale e finale dello street food). Insomma a Napoli se una volta uno faceva attenzione all’orologio, adesso deve fare attenzione ai trigliceridi (anche i ladri stanno tutti a Milano del resto). Quando poi finalmente abbandoni il centro e le sue greggi e pensi di essere al sicuro, off Mergellina, rifugiato nell’ultimo avamposto del vecchio ristorante famigliare per soli residenti nello splendore di Marechiaro, al momento del dolce ti sentirai dire: “abbiamo solo il babà scomposto, della tal pasticceria” cioè quella affollata del centro storico, famosa su Instagram. Come se fosse un plus (da pronunciare plas). A volte poi il concetto di “km zero” è bizzarro. Sempre a Roma, dalle parti della Fontana di Trevi, è sorto un bizzarro, ufficioso, interessante distretto del tartufo. A parte l’occupazione ormai totale da parte dei localari, per cui per transitare in quelle straducole devi sfuggire al caldo abbraccio dei buttadentro e planare sui tavolini degli americani che alle 4 del pomeriggio stanno gustando la loro amatriciana col loro bel cappuccino, respirerai una nube costante di trifola che viene irrorata da ristoranti e negozi di alimentari con un’estetica da vecchia drogheria di Little Italy, mai esistita nella realtà. Così perdi l’orientamento: dove sei? Forse ad Alba? Scorsese sta girando un film sulle gang di cacciatori di tartufi? Poi passa la golf car con gli americani in braghe corte e capisci che no, sei sempre a Fontana di Trevi. Non sapevamo che vi fosse una tradizione di tartufo, da queste parti. Tanto ambiguo è il concetto di “territorio” – altra parola diventata ormai odiosa nella sbornia alimentare degli ultimi anni. Come quando devi scegliere un vino e invece di dirti: “è un vino fatto a”, il cameriere la prende alla larga e si butta in un alato “siamo in…” (e tu pensi: ma siamo chi?). Ma lui va avanti: siamo in Borgogna, Piemonte, Patagonia, Castelli Romani, Tanzania… Altro caso su cui si interroga anche il Times e che ha pochi legami con il “territorio” è l’onnipresente limoncello. Un tempo sfizio molto di nicchia, è ormai diventato “globale”, ma forse conta soprattutto la confezione, essendo in vendita soprattutto nei numerosissimi “bangla”, quei negozietti con la luce sparata a mille watt che al buio risplendono come fari nella notte, e vendono appunto generi di prima necessità e anche limoncello. Ma non un limoncello normale. No, il giallo liquore si trova soprattutto in bottigliette a forma di stivale italico oppure in sordide ampolle che ricalcano un organo maschile col suo scroto che fa da base. Anche le edicole, che non vendono più i giornali, sono state riconvertite nella foodification generale (si ebbe chiaramente la percezione della fine della sinistra italiana quando Fausto Bertinotti comprò, si narra con la liquidazione della Camera, e a mo di investimento per il figlio, e pagandola tantissimo, la storica edicola del rione Monti a Roma, già negli anni Duemila, per dire la preveggenza. Qualche anno dopo è stata demolita). Le edicole che sopravvivono vendono soprattutto grembiuli per cucinare con su disegnato sempre un corpo maschile con pisello, o con scritte “kittesencula” e “stikazzi”. L’ossessione genitale di questi souvenir d’Italie richiederebbe un Lévi Strauss o un Gadda. Del resto c’è tutto anche tutto un genere di sexy chef su Instagram che cucinano seminudi, con molti ammiccamenti: l’italoamericano Gianluca Conte (3 milioni di follower), noto anche come “QCP”, armeggia con ciuffi di prezzemolo che gli spuntano dalle mutande, e salsicce che generano doppi sensi non raffinatissimi. Accanto all’ossessione del pene, a volta salta fuori - vedi tu l’inconscio italiano - anche quella del Duce. Insieme al limoncello, nei bangla della capitale per esempio non mancano i gadget di Mussolini, con bottigliette ducesche sempre di liquore (ma davanti al teatro dell’Opera sorge una storica vineria che da sempre offre bottiglie fasciste in vari cru (e lì, un sommelier direbbe: “siamo tra Predappio e Salò, con note di testa – in giù -di piazzale Loreto”). Insomma di nuovo “Eros e Priapo” (nome forse interessante per una focacceria by Casa Pound). Tra la presenza online e il ristorante fisico esiste poi una terza dimensione, quella del micidiale “food truck”. Non c’è evento, manifestazione, piazza, concerto, mostra del cinema di Venezia, Triennale di Milano, prima comunione da Bolzano a Canicattì che non veda la presenza di camioncini che sfornano cibi da mangiare lì su tavolinetti traballanti e inquinamento acustico. Però attenzione, non è quel tipo di vecchi camioncini che un tempo erano socialmente deprecati, i fetidi bibitari che impallano il Colosseo in mano alla criminalità, si dice, o quello dove ti rifugiavi a mangiare con la fame chimica alle sei di mattina dopo aver fatto serata (classico “Lo zozzone” a porta Maggiore). No, l’ambulante col nome inglese di food truck ha oggi la sua presentabilità culturale, sono tutti “km zero” e “a filiera corta”. E sono ovunque: recentemente, dopo una lunga biciclettata sulle colline del Garda, giunto in un magnifico paesino, quando stavo per pregustare finalmente la vista del lago e la solitudine di una piazzetta fuori da ogni possibile rotta commerciale, eccomi circondato da una schiera di food truck, offerenti tortelli, pasta fritta, spiedo (una versione del barbecue alla bresciana, con la cacciagione), e l’aria di lago amata da Goethe che qui sapeva piuttosto di grassi bruciati. Proprio il bresciano tra l’altro ha regalato alla regione, se non al paese anzi nazione intera, una novità politica ma anche gastronomica non indifferente. Ieri è stata nominata infatti nuova assessora del Turismo della Regione Lombardia Debora Massari, che sostituisce la dimissionaria Barbara Mazzali, appassionata di caccia (detta “Lady carabina”). Il rimpasto (parola più adatta evidentemente non c’è) catapulta in politica l’imprenditrice Massari, che non ha parentele con la compianta Lea, protagonista di tanti film della commedia all’italiana, bensì è figlia del grande pasticcere sovranista Iginio. Secondo “The Fork” Debora Massari è “la pasticcera più influente d’Italia”, con “l’80 per cento di preferenze”, chissà chi erano le pasticcere rivali. Leggo anche che “con Iginio ha preso parte a molteplici show televisivi. Tra gli altri The Sweetman Celebrities e Gli Artisti del Panettone. Cinquant’anni, nominata in quota Fratelli d’Italia, ovviamente è pasticcera ma anche un po’ influencer, nel suo profilo Instagram da 800 mila follower si definisce “Co-founder of Iginio Massari Alta Pasticceria focusing on mktg and R&D. Pietro and Lorenzo’s mom. Tennis lover”. Io invece senza nulla togliere alla figlia sono Iginio lover: confesso di nutrire questa passione fin dai tempi in cui frequentavo da ragazzo il vecchio negozio a Brescia. Oggi però è diventato una “igona” nazionale e anche una maschera della gran commedia dell’arte culinaria italiana. Dove ci sono infatti il cuoco bonazzo alla Cracco, il fornaio rude e meditativo alla Bonci, appunto i sexy chef romani, e poi lui, il burbero pasticcere bresciano da Masterchef, il più famoso uomo senza collo dai tempi di Maurizio Costanzo. Ha conquistato l’Italia col suo brand “Alta Pasticceria” che sorge in ogni città e stazione del paese anzi nazione (ormai, se i treni arrivano tutti in ritardo, le stazioni coi loro mercati e ristoranti sono deliziosi ed efficienti avamposti culinari). Coi suoi capelli candidi, lo sguardo volpino, la t-shirt sotto la giacca, la voce aspirata e la pronuncia gutturale (“una questione di natiura”) è stato consacrato nell’imitazione che ne fa Fabio De Luigi. Pare sia molto vicino alle sorelle Meloni. Di sicuro ha una legge a suo nome: la “Legge Massari”, onore che non capita a tutti, nemmeno a tutti i pasticceri. Il disegno di legge 59/2024 approvato nell’aprile 2024 celebra i professionisti che hanno contribuito alla valorizzazione della cucina italiana nel mondo in otto categorie: “arte della gelateria, arte olivicola, arte casearia, arte della pizza, arte della cucina, arte della gastronomia, arte vitivinicola e, appunto, arte della pasticceria”. Quanta arte! Altro che Lorenzo. L’Italia di oggi ha Iginio il Magnifico, che insieme ad altri protagonisti (Massimo Bottura per la cucina, Riccardo Cotarella per il vino ecc.) è stato pure insignito dalla premier di un bel medaglione a palazzo Chigi nella scorsa primavera. Massari mi sembra per Meloni un po’ l’equivalente dei ragazzi di Grom per il Pd: vi ricordate ai tempi del renzismo, quando a un certo punto il carrellino dei gelatai artigianali, molto cool e liberal e dall’inglese fluente, fu fotografato proprio nella sede del Governo? Poi Grom è stata venduta a una multinazionale, è diventata un prodotto industriale, insomma come Renzi. Ma oggi Giorgia Meloni col suo leggendario fiuto rilancia la grande abbuffata nazionale italiana. Del resto il “food” piace a tutti, non crea rogne, un cuoco non è come un direttore d’orchestra che può dar fastidio se non ha esperienza. Magna che ti passa! Meloni è stata protagonista di un surreale siparietto, a Domenica In il 21 settembre, assisa a una lunga tavolata davanti al Colosseo, con l’ex cognato Lollobrigida, ministri e sindaci. Sembrava “8 e mezzo”, il film di Fellini, non la trasmissione della Gruber, e Sabrina Ferilli (con gli occhiali da sole) ricordava in diretta su Rai 1 che “La cucina italiana è uno straordinario strumento di conoscenza”. Il fine era sostenere la candidatura della cucina italiana a patrimonio Unesco (ci manca solo questo, da popolo di camerieri finiremo popolo di sfogline e sfoglini in vetrina). Quelle scene con la premier in diretta tra i piatti di pomodori ricordavano anche l’antico “patto della pajata”, quando a Montecitorio il sindaco Gianni Alemanno e un perplesso Umberto Bossi (con Renata Polverini governatrice del Lazio che lo imboccava di cibo) sancivano la fine dell’odio leghista per Roma, già vituperata capitale del “magna magna”. Era il 2010 ma sembra un secolo fa. Non c’erano ancora i food truck, per dire. 

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).