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Cavallette fritte, perché no? Basta con le nonne, pensiamo a come nutrire i nipoti
Contro la retorica idilliaca delle vacche al pascolo. L’agroalimentare sta cambiando, impariamo a raccontarlo meglio. Innovazione, sostenibilità e curiosità. Anche per gli insetti a tavola
Mi iscriverei volentieri a un’associazione dedicata a Creonte. Del resto, il conflitto con Antigone nonché la piega tragica che prende la trama non potrebbe esistere senza le ragioni di Creonte. Ma niente da fare, le associazioni sono tutte dedicate ad Antigone. Allo stesso modo, mi piacerebbe entrare in un ristorante dove si cucina il cibo dei nipoti. Purtroppo, anche qui, niente da fare, nei ristoranti italiani c’è un continuo elogio alle nonne. Non per niente la prima puntata di “Domenica in”, quella del 21 settembre, è stata dedicata alla cucina italiana. Dunque, Mara Venier, la zia degli italiani, ha condotto gli spettatori alla scoperta del nostro patrimonio gastronomico, collegandosi ora con Bottura, ora Gigi D’Alessio, ora con Vespa. Alla fine un po’ qua e un po’ là, la zia ha fatto un elogio al cibo dalle nonne, dalle pastarelle alla pajata (comunque, grande momento di televisione che al Dams studieranno se casomai vorranno studiare la semiologia dell’immobilismo italico: sta facendo scuola).
Dai ristoranti a “Domenica in”, è tutta una scoperta del nostro patrimonio gastronomico che ruota intorno al “come una volta”
In realtà, tutta l’Italia gastronomica sembra ruotare attorno al “come una volta”. Esempi non mancano. Una nota pubblicità inquadra due uomini, uno (il bravo Daniele Ciniglio) ha in mano una ricetta e cucina il ragù, l’altro (il bravo Giuseppe Arena) gli chiede: che fai, chef? Quello risponde – non dopo essersi preso una pausa eduardiana che fa tanto Napoli e tanta simpatia – faccio il ragù, lo faccio come lo faceva mamma. E come lo faceva mamma? chiede l’altro, cercando di scorgere il segreto della ricetta che lo chef tiene in un libro. Lo chef – prendendosi altra lunghissima pausa – risponde: come lo faceva nonna. A parte un certo perdurante sessismo, le donne di una volta sono o sante o cuoche, il messaggio che passa è: si mangiava bene quando cucinava la nonna. Che poi mia nonna cucinava con lo strutto, perché l’olio d’oliva costava: ma il problema è proprio questo: lo strutto. Voglio dire, simbolicamente c’entra lo strutto. Nessuno si ricorda dello strutto, c’è stata la grande rimozione di quel tipo di grasso animale. Si immagina, altresì, che le nonne italiane siano millenarie. Ma a ben vedere, le nonne italiane hanno cominciato a cucinare con maggiore consapevolezza solo a partire dal secondo dopoguerra, quando, grazie a svariate innovazioni agricole, sulla tavola lo strutto è stato abbandonato, ed è arrivato cibo in abbondanza, industriale e di migliore qualità. A mo di esempio, a proposito di industria e di ragù, ricordiamo che la passata di pomodoro moderna è più buona di quella delle nonne, perché la genetica non solo ha migliorato il prodotto, ma è riuscita a costituire un pomodoro adatto alla meccanizzazione.
Ma le nonne cucinavano con lo strutto, perché l’olio d’oliva costava. C’è una grande rimozione del grasso animale nel nostro immaginario
Facilitando la raccolta, si è garantita anche la qualità del pomodoro (che a forza di toccarlo con le mani si rovinava). Ma è chiaro che nessun pubblicitario farebbe passare il seguente messaggio: il ragù è buono grazie ai genetisti. Non lo farebbero perché il cliente non vuole. Il paradosso è che quel cliente si adopera per l’innovazione, ma quando deve vendere si concentra solo sulle nonne. Perché? Perché al concetto di nonna si lega ovviamente quello di autenticità. Questo concetto, tra i più ambigui che esistono (pensate all’io autentico, a quante sofferenze ed equivoci promuove e a quanti soldi spendiamo per cercarlo) richiama l’agricoltura di una volta. Capite? Siamo circondati da zie che promuovono nonne che a loro volta stimolano i ricordi di noti personaggi che rimpiangono il tempo delle pastarelle e che alla fine cristallizzano l’immaginario agricolo alimentare del tempo che fu, dimenticando lo strutto. E i nipoti? Quelli non fanno testo, se non come fruitori del cibo e della fatica e della cultura millenaria delle nonne. Difficile uscirne, anche perché ogni occasione è buona per insistere sul vecchio e caro tema del c’era una volta.
Del resto, è dai tempi del “Viaggio nella valle del Po” di Mario Soldati, il primo reportage enogastronomico, andato in onda sulla neonata Rai, che si insiste su questa mistica delle origini. E delle nonne. Difatti, Soldati andava in affanno ogni volta che qualcuno gli ricordava, e si era nel 1957, di qualche recente e benefica innovazione in campo agricolo. Per non parlare di Luigi Veronelli. Non faceva altro che esaltare una enogastronomia rurale. E anche qui, il disgusto che provava verso tutto ciò che appariva moderno – del resto metteva in scena con Ave Ninchi (la nonna degli italiani) dei simpatici duetti all’insegna del tradizionale è bello.
Non sono bastati i caroselli allora avanguardistici che pubblicizzavano la buona e industriale carne Montana e la già globale Ferrero, perché, a distanza di anni, ancora oggi, i media che raccontano l’agricoltura non brillano né in fantasia né in capacità visive. In genere, se si deve montare un servizio televisivo, la troupe se ne va su una montagna a intervistare qualcuno che alleva un po’ di animali e ha l’orto. Uno che dice: ho scelto un’agricoltura senza pesticidi, insomma autentica. Tra l’altro, una volta, mio padre che ha 90 anni, contadino per decenni, poi funzionario dell’Ispettorato agrario di Caserta, nonché dirigente, dopo aver visto un documentario di Geo di questo tipo (location tra le valli incontaminate, allevamento alla stato brado, qualche moggio di terreno coltivato ad orto), ha preso carta penna e si messo, con gli strumenti dell’estimo, a fare un’analisi costi e benefici dell’azienda montana e già a metà conteggio ha cominciato a dire: ma non si giustifica un’azienda così, non è sostenibile. Alla fine ha concluso: ma questi come campano? Campano di fantasia, diciamo così, visto che lo stato dell’arte delle aziende agricole italiane è disastroso.
E’ dai tempi del “Viaggio nella valle del Po” di Mario Soldati che si insiste sulla mistica delle origini. La pubblicità oggi è ferma a quel punto
Ma comunque, non importa la realtà, quando si parla di agricoltura si parla sempre di agricoltura ideale, mica di quella reale, di nonne senza strutto. Tutto in questo ambito assomiglia a una pubblicità e tutte le pubblicità agricole raccontano lo stesso tipo di personaggio: nonne, nonni. E soprattutto la falce – qualche volta anche i buoi che tirano aratri di legno. Nemmeno i comunisti duri e puri hanno la falce nel simbolo, a stento qualcuno si ricorda la canzone Contessa. Chi canta più compagni dai campi e dalle officine, prendete la falce portate il martello? Ebbene, se vuoi girare una pubblicità agricola (o un servizio televisivo) ti devi portare la falce, e fare belle inquadrature al tramonto, dove bei giovani, con le maniche di camicia arrotolate, sfalciano campi di erba medica per poi nutrire belle vacche e infine mungerle, ovviamente a mano e ovviamente per ricavarne latte crudo. Qui, in questa esaltazione della falce e delle vacche di una volta, si ignora un aspetto: le vacche sono belle se funziona il sistema stalla e non perché se ne stanno placide su un alpeggio a favore delle telecamere. Ignoriamo cioè quello che dice Roberto Brazzale, fondatore della Brazzale S.p.a. Il sistema stalla prevede molteplici attori, tutti esclusi dai racconti agricoli. Se un formaggio è fatto a Brescia allora il latte proveniente da vacche acquistate a suo tempo in Baviera, nutrite con soia brasiliana, mais americano ed erba medica disidratata spagnola. Manze inseminate con seme di toro Canadese, munte in sale di mungitura con tecnologia tedesca e curate da bravi bergamini pakistani o albanesi. Latte poi trasportato da autista bosniaco, cagliato da un casaro moldavo, poi conservato in un magazzino da un bengalese, il tutto poi ottenuto su un podere concimato con concimi canadesi o tedeschi, distribuito con macchine americane che a loro volte sono il risultato di assemblaggio di pezzi diversi e così via, verso l’infinito.
Un formaggio “bresciano”? Fatto con latte di vacche bavaresi, nutrite con soia brasiliana, su un podere concimato con sostanze canadesi
Sono cose che si sanno ma non si dicono, perché altrimenti alle nonne chi ci pensa? Oltretutto a proposito di latte, nelle suddette pubblicità non vengano mostrati quei bellissimi tubi di acciaio nei quali si pastorizza il latte. Che peccato, nonostante il noto adagio, la scoperta dell’acqua calda è stata tra le più grandi conquiste dell’umanità, sapete quante nonne e quanti nipoti sono morti per contaminazioni alimentari del tempo che fu? Altro che terribili intossicazioni da botulino odierno, tra l’altro colpa delle conserve della nonna. Ma niente, noi siamo il paese delle nonne e in quella cultura siamo invischiati.
Allora, per tornare all’inizio, bisognerebbe sposare anche le ragioni di Creonte. Mettiamola in questo modo: così come le ragioni di Creonte sviluppano e potenziano il personaggio di Antigone, così il cibo delle nonne senza innovazioni non potrebbe neppure arrivare in tavola. Ora, magari siete convinti che una volta si mangiava meglio e lo sostenete nonostante le evidenze, quindi vi state pure innervosendo a leggere l’articolo. Se è così ne approfitto per aggiungere una considerazione. Per millenni abbiamo mangiato solo biologico, solo prodotti di stagione, non c’erano serre, di destagionalizzazione nemmeno a parlarne, l’aria era più pulita, eppure dal Neolitico fino al secondo dopoguerra la mortalità infantile è stata altissima, e la vita media si è attestata sempre intorno ai 40 anni.
Ma se nonostante le evidenze siete convinti della bontà del cibo tradizionale, non ci sono dati che tengano, mollate subito la lettura. Se invece siete curiosi e soprattutto vi appassiona non solo la geopolitica, cioè non solo la triste litania dei conflitti, ma anche la geografia del cibo, fonte di convivenza civile, allora questo articolo (forse) può nutrire la vostra curiosità. La verità? C’è una grossa novità. Il cibo sta cambiando. Le nonne stanno cambiando. Poi c’è la crisi climatica, i commerci facilitati, la via della Seta. Metti infine che in Italia la terra non la lavora più nessuno. Tra il 1950 e il 1960, in agricoltura erano impegnati 38 occupati su 100. La produzione in buona parte finiva nelle mense dei consumatori, dopo pochi passaggi, se non in maniera diretta. Oggi, la proporzione è di solo 3,6 lavoratori su 100. Sono quelli quotidianamente impegnati per provvedere al fabbisogno alimentare e anche il più semplice prodotto agricolo compie diversi passaggi, prima di finire in cucina.
Possiamo anche maledire l’agricoltura moderna ma tra i benefici della modernità dobbiamo sottolineare una nota non secondaria: le donne e le nonne e le figlie si sono liberate dalla schiavitù della terra. Sono uscite da un regime tradizionale che per millenni ha limitato le loro vite. Poi, uno può dire che liberandosi dalla schiavitù della terra sono finite in altre e più complesse schiavitù, ma sono sofismi: avere più possibilità, o meglio non essere per forza destinate a un percorso immutabile, è un buon parametro per giudicare la qualità della vita. Tornando alle nonne e al cibo, per chiarire perché le nonne non sono più quelle di una volta, affrontiamo la sempre sottovalutata questione demografia. I numeri dicono che gli Asiatici stanno raggiungendo quota 5 miliardi, gli Africani quota due miliardi. Americhe ed Europa decrescono (poi fra due decenni comincerà, secondo le proiezioni dei demografi, la decrescita demografica interesserà anche l’Africa e l’Asia). Quindi mangeremo più asiatico e più africano, e inoltre – qui veniamo al punto – c’è la possibilità che le nuove nonne non siano solo italiane e portino sulle nostre tavole altri tipi di cibi e di sapori. Siamo curiosi di questi ultimi o proclamiamo ragù forever?
Con l’agricoltura moderna, le donne si sono liberate dalla schiavitù della terra, da un regime che per millenni ha limitato le loro vite
Il fatto è che ci piace il cibo del passato per due motivi, non sappiamo niente del passato e tendiamo a idealizzarlo e abbiamo difficoltà a immaginare il futuro. Sulla capacità di alcuni film di fantascienza di descrivere il futuro ci si potrebbe scrivere un saggio, il cellulare per esempio non è stato nemmeno lontanamente inserito nei film che trattavano il futuro prossimo, e dire che alcuni di questi sono dei capolavori. Quando sono nato, nel 1966, lo scrittore di fantascienza Arthur C. Clarke scrisse sulla rivista statunitense Vogue: “Nel 2001, un intero mese di pasti per una famiglia potrà essere consegnato, in forma surgelata o disidratata, in un pacco del peso di circa 50 chili. L’unità sarà collocata in una specie di ‘cuoco meccanico’. Verrà selezionato il pasto desiderato, e il computer incorporato farà tutto il resto. La carne probabilmente non proverrà da un bue, perché quella naturale è antieconomica, e potrebbe essere perfino proibita nel ventunesimo secolo. I nostri nipoti mangeranno erba, e non sapranno nemmeno di farlo. Alla fine, solo il cibo puramente sintetico potrà nutrire i miliardi di abitanti del pianeta”.
Nel 2001 – ricordo – mi sono concesso un pranzo gourmet, dove il massimo della sperimentazione era la decostruzione di alcuni piatti tradizionali. Il futuro non è facile da prevedere, però il cibo cambierà anche perché la fabbrica, cioè l’agricoltura, subirà una trasformazione. Del resto, ci sono già tanti nuovi strumenti che permettono di produrre con meno costi e meno inquinamento, un imperativo categorico, vista la situazione. Ora, vero, non mangeremo alghe e bioproteine a tutto spiano, ma le nonne moriranno e verranno sostituite da altre, con diversi riferimenti culturali. Quindi, domanda infame: le nonne del futuro potranno insegnare ai nipoti a preparare ottimi piatti tradizionali a base di insetti?
Magari anche se siete appassionati di piatti esotici questo argomento è duro da digerire. Ma parliamone, dai. La giornalista Rebecca L. Root, che vive a Bangkok, ha scritto un saggio su Noema. Ci spiega che nella regione nord-orientale dell’Isan, in Thailandia, gli insetti vengono consumati con la stessa voracità con la quale molti di noi mangiano le patatine. Dice: “Vengono serviti a colazione, pranzo e cena e spesso portati in giro come spuntino di mezzogiorno. Molti li raccolgono da soli, avventurandosi più volte a settimana nel lussureggiante paesaggio della giungla. Altri si fermano al mercato più vicino. Questi mercati ospitano decine di venditori che espongono centinaia di prelibatezze locali a base di insetti su tavoli di plastica”. Ora, l’Isan è storicamente più povero del resto della Thailandia e di conseguenza gli insetti sono da tempo un alimento base nella dieta locale. Non costa nulla catturarli e sono una fonte di proteine più economica rispetto al maiale o al manzo. Quindi, in questo luogo, mangiare insetti è una tradizione. Insomma, è una ricetta delle nonne. Anche perché seguendo la tradizione la gente è così legata alla natura che mangiano tutto quello che la natura offre in ogni stagione.
Come tradizione, poi, la maggior parte delle persone aggiunge le formiche a un soffritto, o le aggiunge a una zuppa tom yum, per un sapore più intenso. Le formiche sono acide, con un sapore aspro e pungente, e offrono un’alternativa al lime. La cosa curiosa – aggiunge Rebecca L. Root – è che ci sono parecchi chef che stanno cercando di preparare cibi moderni sulla base di materia tradizionale, come gli insetti. Alcuni ristoranti, spesso piccoli e rustici, servono menù a degustazione stagionale dell’Isan che spesso includono le prelibatezze regionali a base di insetti o alcune specialità come le uova di formica. Un menù che potete consultare offre centinaia di uova di colore bianco perla o disposte a ventaglio su foglie di banano o piatti. Costo? 100 baht (3 dollari) a piatto. Allora, parliamoci chiaro: va bene, l’Isan è una regione povera, ma in un mondo in cui le temperature stanno aumentando, dove le persone stanno diventando più consapevoli del clima e più attente alla propria salute, visto che le nonne del futuro saranno meno italiane e più asiatiche e africane, questa tradizione potrebbe diffondersi altrove?
Per dare senso alla domanda, mettiamo sulla bilancia anche il consiglio della Fao, che a partire dal 2003, e più volte, ha incoraggiato le persone a mangiare insetti, riconoscendo che nei nostri attuali sistemi alimentari la produzione di carne è problematica. Al contrario, gli insetti sono una preziosa fonte di nutrienti. In più, l’allevamento di insetti è sostenibile, rispetto ad altre fonti proteiche: richiede poca acqua e spazio, producono pochissimi rifiuti e basse emissioni. Gli insetti, poi, rispetto alla carne sono (dal punto di vista delle calorie) vantaggiosi. Un paio di manciate di grilli, ad esempio, contengono quasi 30 grammi di proteine, più di un petto di pollo. Uno studio pubblicato nel 2023 analizza l’entomofagia in Thailandia, ovvero la pratica di mangiare insetti commestibili: locuste, punteruoli delle palme, pupe del baco da seta, bruchi del bambù, grilli, formiche rosse e cimici d’acqua giganti. Ebbene – sostiene lo studio – questi insetti commestibili sono un’eccellente fonte di proteine, grassi, vitamine e minerali. In particolare, grilli e cavallette sono ricchi di proteine, con un contenuto proteico medio che varia da 35 a 60 g/100 g di peso secco o da 10 a 25 g/100 g di peso fresco. Questo supera il contenuto proteico di molte fonti vegetali.
La Fao, a partire dal 2003, ha più volte incoraggiato a mangiare insetti: nei nostri sistemi alimentari la produzione di carne è problematica
Oltre al loro valore nutrizionale, gli insetti commestibili contengono composti che offrono diversi benefici per la salute. Tra questi, proprietà antibatteriche, antinfiammatorie, anticollagenasi, inibitori dell’elastasi, proprietà antidiabetiche, anti-invecchiamento e immunostimolanti. Infine sono meno vulnerabili alle epidemie e hanno meno probabilità di diffondere malattie agli esseri umani. Non so quanti lettori sono arrivati a questo punto, il fattore disgusto è potentissimo. Però anche qui parliamone. Vero, il catalogo di cose che ci disgustano è vasto. Dal punto di vista evolutivo il disgusto nasce da un problema fondamentale: per sopravvivere, dobbiamo mangiare, ma se il cibo è potenzialmente contaminato da agenti patogeni e veleni invisibili, allora mangiare può ucciderci. Per questo quando parliamo di cibo parliamo di gusto, perché ci toglie il sospetto che quel cibo sia contaminato, avariato. Se abbiamo un’avversione per l’amaro è perché le tossine tendono a essere amare, se abbiamo una predilezione per il dolce è perché abbiamo imparato che lì si ricava energia. Il disgusto del resto è un’emozione primordiale, lo esprimiamo fisicamente, chi non riconoscerebbe la caratteristica faccia del disgusto: naso arricciato e labbro superiore sollevato?
Quando sei disgustato non c’è nulla che possa convincerti. Ci sono molti esperimenti divertenti dove si chiede al partecipante di turno di bere un bicchiere di acqua sterilizzata e pulita, pura, dove prima però c’era dell’urina. Hai voglia di dire che quell’acqua, sterilizzata, quindi ora pura e freschissima che altro che le chiare e dolci acqua, hai voglia di portare le prove. Analisi e test, cose razionali, non vi faranno bere quell’acqua. Il disgusto, del resto, dando l’impressione di contaminazione, ci fa desiderare la purificazione. Questo aprirebbe un altro capitolo sulle scelte politiche, quasi tutte basate sul disgusto e sui rituali di purificazioni, ma lasciamo stare.
Tornando agli insetti. Siamo forse disgustati dalle cose sbagliate? Per rispondere ancora una volta l’immaginario della nonna non aiuta. Non aiuta né a capire come funziona il mondo agricolo, né a chiedersi se proprio affrontando il disgusto e lavorando su questo potremmo ottenere un benefico cambiamento. Proviamo a immaginare una situazione di questo tipo. Se entriamo in un macello e negli impianti di lavorazione, potremmo essere disgustati e rinunciare a uno dei tipici pranzi domenicali della nonna a base di ragù? E se invece qualcuno, un chef o altri, ci facessero apprezzare il gusto di alcuni insetti? Già Aristotele elogiava la dolcezza della cicala femmina, che è meglio mangiare quando è piena di uova fecondate. Se dunque spostando il disgusto (e allontanandoci dall’immaginario della nonna e dei contadini che falciano il prato, elementi che orientando il gusto ci creano un esagerato senso di disgusto per tutto ciò che non ricorda la fantomatica nonna) ci decidessimo ad assaggiare le cicale? Quando le ho assaggiate in un evento, non credevo alle mie papille gustative, perché la cicala in tempura ha un sapore molto simile ai gamberi.
Gli insetti ci disgustano: ma che succederebbe se entrassimo a vedere come funziona un impianto di macellazione? Addio ragù domenicale
Quindi in sostanza ci vuole curiosità, e quella o ce l’hai o oppure nisba, ma si guadagnerebbe tanto a prendersi questi impegni: non solo cambiare l’immaginario agricolo, orientandolo verso la modernità, ma anche farci assaggiare un cibo nuovo per noi. Nuovo per noi ma tradizionale per tanti altri. Quindi trasformare un cibo considerato povero e riservato a comunità povere in un cibo sano, appetibile: è capitato con la pizza, perché dobbiamo escludere la cicala? La sfida sarà incuriosire, ci vogliano chef curiosi più aperti e non dediti solo al cibo delle nonne. Il lavoro da farsi sarà valorizzare la cucina locale e presentare ricette innovative, solo così si offrirà agli insetti un’opportunità per entrare nel mondo della ristorazione di lusso, anziché lasciarli nei chioschi dei mercati notturni delle regioni più povere. Sempre Rebecca L. Root ci racconta di uno chef locale molto bravo che si chiama Ou, la cui famiglia ha radici nell’Isan – e infatti Ou ricorda di aver raccolto e cucinato insetti con sua nonna. Ou sostiene che la maggior parte delle formiche sotterranee, hanno un sapore simile al parmigiano. Ou affronta poi la questione verme del cocco – grande, viscido, giallo dorato – da una parte ha un aspetto sgradevole, dall’altra parte è quello più apprezzato dalla gente del posto. Molti visitatori mangiano l’insetto in un solo boccone dichiarando “dolce e croccante”, questi lepidotteri non sono affatto morbidi e mollicci, come il loro aspetto tende a suggerire. Insomma, una volta assaggiato, lo apprezzi.
La sfida sarà incuriosire, ci vogliano chef più aperti. Il lavoro da farsi sarà valorizzare la cucina locale e presentare ricette innovative
Per ora gli insetti sono una stravaganza e c’è ancora molta strada da fare, prima che questi diventino cibo comune e vengano serviti nei ristoranti. Però considerato il fatto che nessuno scrittore di fantascienza aveva previsto cosa avremmo mangiato nel secondo millennio, potremmo trovarci a sorpresa degli insetti nel piatto. Una cosa è sicura: le nonne stanno davvero per cambiare e con loro anche le loro ricette. Io che ho 60 anni e potrei essere già nonno, per la pace nel mondo non faccio altro che augurarmi dei benefici e pacifici scambi alimentari, non dei malefici dazi gastronomici, economici e culturali. Dunque abbinerei volentieri il ragù con un formaggio ricavato dalle formiche sotterranee. Anche per capire se davvero queste ultime sanno di parmigiano e nel caso, come, attraverso quale innovazione, migliorare il loro sapore. P.s. Se conoscete un’associazione dedicata a Creonte me lo fate sapere?


A cena col conservatore /3
Il Lambrusco Ancestrale che piace alla sinistra, unico nettare degno di me, conservatore solitario
