Il ritorno della nocciola autarchica per salvare la Nutella dalle guerre di Putin

Maurizio Stefanini

Georgia, Abkhazia e Turchia non sono sicure: così Ferrero cambia

Roma. Grazie alla Nutella, poche imprese in Italia hanno un’immagine più multinazionale e cosmopolita della Ferrero. Eppure, proprio la Ferrero ora lancia una inedita campagna autarchica, per ripopolare l’Italia di noccioleti. Non è però l’influenza dell’ondata sovranista che tracima. Più semplicemente, le tensioni che attorniano la Russia di Putin rischiano di mettere a repentaglio le fonti di approvvigionamento. In particolare, la situazione non chiarita tra Georgia e Abkhazia. Ma in prospettiva non solo quella. E allora, hanno pensato al colosso dolciario di Alba, perché non tornare a puntare su quel territorio italiano da cui tutto è nato?

 

D’altronde, questa Guerra della nocciole non è affatto la prima. Il brand della Nutella fu lanciato con questo nome sul mercato internazionale nel 1964, ma in effetti il prodotto non è che una variante del gianduja: tradizionale ricetta piemontese il cui nome è condiviso con la popolare maschera. Ed è storicamente provato che i pasticceri di Torino nel 1806 ebbero l’idea di macinare il cacao assieme alle nocciole delle Langhe proprio perché l’invasione napoleonica del Piemonte aveva reso particolarmente caro il cacao, per via del “Blocco continentale” deciso dall’Imperatore contro i prodotti importati dagli inglesi. La Ferrero assorbe oggi da sola tra un quarto e un terzo di tutta la produzione mondiale. E sì che mentre la ricetta del gianduja classico aveva il 71,5 per cento di pasta di nocciola e il 19,5 di cioccolato, la Nutella ha reso il prodotto alla portata di tutte le tasche abbassando la proporzione di nocciole al 13 per cento e quella di cacao al 7,4. Il 56 per cento è zucchero, il 6,6 per cento latte scremato e il 19 per cento olio di palma (da cui varie polemiche, ma quella è un’altra storia).

 

Il problema attuale è che l’Italia fornisce oggi solo il 12 per cento della produzione mondiale di nocciole: 70 mila ettari, con una media annuale da 110 mila tonnellate. Al secondo posto, ma ben distanti dal 70 per cento della Turchia. Per diversificare l’approvvigionamento la Ferrero ha individuato nella Georgia un paese il cui clima è particolarmente adattato a questa coltura, e così negli ultimi 10 anni ha investito in terreni e in due stabilimenti, facendo della repubblica caucasica il terzo produttore mondiale. Un decimo delle nocciole georgiane sono però in realtà prodotte in Abkhazia: repubblica separatista che assieme all’altra repubblica ribelle dell’Ossezia del Sud combatté contro la Georgia ancora nel 2008 una guerra che vide l’intervento russo e l’inizio della nuova politica di espansione putiniana. Solo la Russia, il Venezuela di Maduro, il Nicaragua di Daniel Ortega, tre staterelli dell’Oceania e quattro altri stati non riconosciuti ex sovietici riconoscono questa indipendenza. Il business è talmente importante che è l’unica cosa su cui Georgia e Abkhazia collaborano, e Tbilisi accetta di far passare come georgiane le nocciole abkhaze per l’export in Europa. Ma lo stesso accordo di libero scambio con l’Ue che la Georgia ha accettato di firmare per velocizzare gli scambi imporrà presto un tipo di standard europeo con la certificazione della provenienza. Quindi, o i produttori abkhazi accettano di farsi registrare come georgiani, cosa che il governo ribelle rifiuta, o non potranno più esportare, perché il loro paese per l’Europa non esiste. Ecco il problema diFerrero.

 

Nel frattempo caldo, siccità e un’invasione di cimici asiatiche hanno fatto crollare la produzione italiana: nell’ultimo anno il 50 per cento in meno nell’Alta Langa, addirittura il 90 per cento in meno nella zona pianeggiante della provincia di Cuneo, tanto per restare nell’hinterland storico della Ferrero. Ma anche della Turchia di Erdogan in questi momenti non è il caso di fidarsi troppo. Insomma, Ferrero ha reso noto un programma autarchico per rilanciare la produzione di nocciole nazionali al Nord e al Sud, arrivando entro il 2025 al 30 per cento della produzione mondiale. Gli investimenti sono già in campo, anzi in noccioleto.

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