L'intervista
Da Timor est una lezione all'occidente sull'eclissi del sacro
"La secolarizzazione e la ‘eclissi del sacro' in occidente possono essere analizzate attraverso la lente della secolarizzazione radicale e della ‘cornice immanente' della vita moderna"
"Con l’aumentare del benessere materiale, l’‘orizzonte trascendentale’ tende spesso a ritirarsi. Non si tratta necessariamente di un rifiuto attivo di Dio, ma piuttosto di un profondo ‘ateismo funzionale’ nato da una tecnocrazia autosufficiente". Intervista a mons. Virgílio do Carmo da Silva, cardinale di Díli, capitale di Timor est. Dove credere è un elemento costituivo della società
Roma. Un terzo dell’intera popolazione di un piccolo paese accorso per vedere il Papa, che s’apprestava a celebrare la messa. Un popolo fedele per ore in attesa, sotto il sole, sulla spianata di Taci Tolu, dove possono arrivare i coccodrilli, e non solo quelli delle colonizzazioni ideologiche. La scena che si vide un anno e mezzo fa a Timor est, cuore pulsante del cattolicesimo asiatico devastato da anni di guerra civile, colpì i sonnolenti osservatori occidentali. Si domandò ai preti e ai religiosi del luogo cosa stesse accadendo, come fosse possibile un evento del genere. La risposta fu sintetica: c’era il Papa, cioè il rappresentante di Gesù sulla terra. Niente di più. Inconcepibile alle nostre latitudini: la gente, si sa, non vive più nemmeno come se Dio esistesse. Semplicemente non ci pensa; la questione nemmeno si pone. Come si vede allora la nostra situazione dalla “periferia” di Timor est?
“Direi che la Chiesa resta ‘viva’ anche all’interno di un mondo secolarizzato”, dice al Foglio mons. Virgílio do Carmo da Silva, salesiano, arcivescovo di Díli, la capitale del piccolo paese a cavallo tra Asia e Oceania che Papa Francesco creò cardinale nel 2022. “Sebbene le ombre del postmodernismo cerchino di oscurare la presenza della fede e della Chiesa in occidente, possiamo ancora vedere la luce della speranza che brilla. Il pontificato di Papa Francesco ha risvegliato la fede di molti in Europa e credo che i suoi successori continueranno su questa strada nello spirito della sinodalità, rendendo la Chiesa ancora più vitale. Dal mio punto di vista, la secolarizzazione e la ‘eclissi del sacro’ in occidente possono essere analizzate attraverso la lente della secolarizzazione radicale e della ‘cornice immanente’ della vita moderna. Con l’aumentare del benessere materiale, l’‘orizzonte trascendentale’ tende spesso a ritirarsi. Non si tratta necessariamente di un rifiuto attivo di Dio, ma piuttosto di un profondo ‘ateismo funzionale’ nato da una tecnocrazia autosufficiente. A Timor est, la vicinanza alla sofferenza e la dipendenza dall’ordine naturale impediscono questa atrofia spirituale. La situazione attuale dell’occidente potrebbe essere il risultato di una crisi pedagogica: quando la persona umana è ridotta a consumatore, la capacità di meraviglia – e quindi la capacità di Dio – si indebolisce. Risvegliarla richiede un ritorno alla centralità del kerygma, vivere concretamente lo spirito della sinodalità ed essere una Chiesa in mezzo alla gente”.
Il suo è un popolo dalla fede profonda. Hanno colpito le sue parole dette in occasione della visita del Papa: “Timor è un piccolo paese, un’isola lontana, eppure il suo popolo semplice vive l’originalità della fede in Gesù Cristo”. Come si spiega qualcosa di così grande?
“La visita di Papa Francesco nel nostro paese è stata per tutti noi un evento straordinario; le sue parole, i suoi gesti e la sua vicinanza a questa gente semplice hanno toccato il cuore di molti. E’ stato davvero un fenomeno di fede. Noi, come Chiesa di Timor est, aspettavamo questo momento da molti anni e, quando finalmente si è realizzato, si è rivelato un’esperienza profonda di fede e di grazia. Questa accoglienza così significativa del Santo Padre riflette ciò che potremmo definire una resilienza inculturata. Fin dall’arrivo dei primi missionari su quest’isola, si è posta una base fondamentale della missione: l’evangelizzazione della cultura e l’inculturazione della fede. Da cinquecento anni, la presenza del Vangelo è profondamente radicata nella vita del nostro popolo. A Timor est, la fede cattolica non è semplicemente un sistema religioso sovrapposto, è diventata un elemento fondante della nostra identità. Durante i decenni di lotta per l’autodeterminazione, la Chiesa ha rappresentato il principale garante istituzionale della dignità umana. Di conseguenza, il popolo timorese vive la fede come una realtà esistenziale. L’originalità a cui mi riferisco è una purezza pre-moderna della devozione: una sintesi organica in cui il Vangelo permea la vita sociale, rendendo la presenza di Cristo un’esperienza tangibile e comunitaria, un incontro relazionale con Dio nella semplicità della vita quotidiana”.
Come salesiano, lei sa quanto sia importante stare vicino ai giovani. Ma in occidente oggi abbiamo un grande problema: i giovani sono sempre più soli. E’ un paradosso: hanno tutto, sono iperconnessi. Eppure questo è un tempo di solitudine.
“Direi che l’impatto del mondo digitale è una questione di preoccupazione comune; molti giovani stanno diventando vittime delle influenze negative presenti online. Si è creata una nuova realtà che incide profondamente sulla vita interiore dei nostri giovani. Dal punto di vista pedagogico salesiano, stiamo assistendo a una transizione dalla comunione alla connessione. L’iperconnessione spesso maschera una profonda mancanza di accompagnamento autentico. I giovani di oggi possiedono i ‘mezzi’ della comunicazione, ma non il ‘significato’ dell’incontro. Nella tradizione di san Giovanni Bosco, il ‘sistema preventivo’ richiede la nostra presenza fisica e intenzionale sia nell’‘oratorio digitale’ sia nel mondo reale. Per contrastare questa solitudine, dobbiamo favorire una costruzione esperienziale del senso. Ciò implica accompagnare i giovani dal consumo digitale passivo a una partecipazione comunitaria attiva, ancorando la loro identità nel servizio e nell’appartenenza relazionale, piuttosto che nella validazione algoritmica”.
La “società opulenta”, come la chiamava san Paolo VI, ha portato anche alla disgregazione delle comunità tradizionali in cui le persone vivevano e condividevano la fede. In Europa vediamo che il tessuto sociale che un tempo teneva unite le persone e le famiglie si è lentamente sgretolato: a malapena ci si saluta più.
“Noi a Timor est viviamo in un contesto in cui i valori sociali sono ancora preservati come parte fondamentale della nostra cultura. Conserviamo valori positivi che rafforzano la vita comunitaria, rendendoci più relazionali che individualisti. Nel nostro servizio pastorale insistiamo molto su questo, soprattutto all’interno della famiglia, concentrandoci su come questi valori possano essere trasmessi nel contesto familiare, nella Chiesa e nella società nel suo insieme. Penso che la disgregazione delle comunità tradizionali nelle società opulente sia un tratto distintivo della tarda modernità, con la sua enfasi sull’individualismo. Questa ‘socialità liquida’ mina gli ambienti stabili necessari alla trasmissione della fede. Ricostruire tali comunità richiede un passaggio verso micro-chiese: piccole comunità intenzionali che funzionino come oasi di fraternità. A Timor est beneficiamo ancora di un’antropologia comunitaria, ma non siamo immuni dalle tendenze globalizzanti. La soluzione sta nel creare spazi di gratuità, ambienti in cui le relazioni non siano di tipo transazionale. La Chiesa deve agire come collante sociale, reintegrando le famiglie in una vita liturgica e diaconale condivisa che superi l’isolamento dell’ambiente urbano moderno”.
Timor est è spesso descritta come parte della “periferia” del mondo, almeno dal punto di vista mediatico e geopolitico. Ha una storia dolorosa, ma oggi stiamo assistendo a dei progressi. Le persone si sentono ora più fiduciose?
“Nello spirito dell’Anno giubilare che stiamo celebrando, posso dire sinceramente che la Chiesa di Timor est è un faro di speranza per l’Asia. Anche se ci troviamo alla periferia del mondo, vogliamo che il mondo veda che qui splende una luce, una luce che raggiunge anche coloro che vivono nei centri globali. Questo è stato testimoniato con forza durante la visita di Papa Francesco a Timor est; è stata la prova che Dio vede tutti coloro che vivono ai margini. Come ha detto il Papa, durante la sua visita: ‘Questo è un paradosso che dobbiamo imparare: nel Vangelo le periferie sono il centro, e una Chiesa che non ha capacità di periferia e si nasconde nel centro è una Chiesa molto malata’. Dalle periferie si può percepire la condizione globale con maggiore chiarezza, liberi dalle illusioni del potere centrale. La nostra storia, pur segnata dal trauma, è entrata in una fase di speranza costruttiva. Questa speranza non è un semplice ottimismo; è una virtù teologale radicata nella nostra liberazione storica. Mentre ci integriamo sempre più nella comunità internazionale, la nostra sfida è mantenere il patrimonio spirituale perseguendo al contempo uno sviluppo sostenibile. Il nostro popolo nutre una profonda fiducia teleologica, la convinzione che il futuro si stia costruendo su solide fondamenta di fede, vivendo in pace con gli altri e in armonia con la nostra casa comune. Nello spirito della fraternità, il futuro di questo paese sarà luminoso. Inoltre, la Chiesa svolge un ruolo molto importante nell’educazione, formando i giovani secondo i valori evangelici e preparandoli a essere buoni cristiani e buoni cittadini. La nostra missione è vivere come Chiesa sinodale, camminando con i poveri, gli emarginati e i più deboli. La presenza della Chiesa qui è un segno di speranza e di amore per questo paese, per l’Asia e per il mondo intero”.
Cristiani in Cina
Nel nome di Xi Jinping