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Il nuovo arcivescovo di New York è il perfetto esempio del modello Prevost

Termina l'èra del cardinale Dolan. Al suo posto arriva mons. Ronald Hicks. Segni particolari: devoto a San Romero, vicino ai migranti, amato dai tradizionalisti. Impossibile incasellarlo

Matteo Matzuzzi

La scelta di Leone XIV delinea una linea che il nuovo Pontefice seguirà nei prossimi anni: vescovi dal basso profilo, poco politici, molto impegnati sul fronte sociale. Ma anche legati alle antiche tradizioni popolari. Mons. Hicks è stato vicario generale del liberal Cupich, ma fu il conservatore George ad affidargli i seminaristi di Chicago

Roma. Mons. Ronald Hicks, cinquantott’anni, è il nuovo arcivescovo di New York. Leone XIV ha congedato il cardinale Timothy Dolan dopo dieci mesi di proroga, neanche i due anni che per stessa recente ammissione papale sarebbe stato possibile concedere ai porporati. Finisce un’èra e se ne apre un’altra, che fa molto comprendere la linea del pontificato. Certamente la nomina di mons. Hicks non rappresenta – come invocato dai settori più conservatori americani – il tramonto del cardinale Blase Cupich, l’arcivescovo di Chicago che sotto Francesco era un peso massimo nella scelta dei vescovi da nominare negli Stati Uniti. Cupich ha quasi 77 anni ed è stato pure nominato di recente nella Pontificia commissione per lo stato della Città del Vaticano, mentre il di poco più giovane Dolan viene già pensionato. Quanto a mons. Hicks, di Cupich è stato vicario generale a Chicago, cioè il primo collaboratore. Divenuto poi vescovo ausiliare della stessa metropoli, pochi anni fa era stato trasferito nella vicinissima Joliet, come ordinario. Fin qui, la classica lettura istantanea e superficiale: un uomo di Cupich (quindi un liberal) mandato a New York, il rovesciamento dei pesi interni alla conferenza episcopale, la chiara linea impostata dal nuovo Pontefice. Scavando un po’ più in profondità, però, la questione si fa più complessa. Intanto perché Hicks è stato sì vicario generale di Chicago, ma il cardinale Francis George – un campione del “conservatorismo culturale” – lo scelse quale decano dei formatori del seminario diocesano. Il che fa supporre che proprio agli opposti della visione ecclesiale e/o dottrinale di George il giovane Hicks non dovesse essere. E fu proprioHicks, tra l’altro, a tenere il discorso di commiato ai funerali di George, quando per espresso desiderio del cardinale defunto l’omelia fu assegnata non a Cupich bensì all’allora vescovo di Seattle. Non solo. Tra le comunità tradizionaliste di Joliet – assai forti, come si sa il tema liturgico è divisivo al di là dell’oceano – è un profluvio di lodi sperticate al vescovo, che “coraggiosamente” avrebbe consentito la celebrazione di tutte le messe in vetus ordo nonostante il clima avverso. “Un uomo molto buono e a noi vicino”, si legge fra i commenti pressoché unanimi. E’ pure saltata fuori una email spedita dall’ufficio del vescovo in cui si conferma la validità del decreto di mons. Hicks che permette la celebrazione secondo il messale del 1962 considerando “i benefici” riscontrati presso chi vi partecipa. Non solo: si ricorda che l’arcidiocesi di Chicago, assai più restrittiva, è “una giurisdizione completamente separata e fa le sue proprie considerazioni” in proposito. I settori pro life ricordano anche la nota pubblica che Hicks scrisse a commento del rovesciamento della sentenza Roe vs Wade sull’aborto, nel 2022: “La decisione odierna è una risposta a decenni di preghiera e riafferma la tutela della più innocente fra tutte le vite umane – il bambino nel grembo materno – principio che da tempo è un pilastro della dottrina sociale cattolica. Celebro questa sentenza, ma al tempo stesso piango il fatto che qui, nel nostro stato dell’Illinois, essa non avrà effetti immediati, dato che nel 2019 lo stato ha sancito per legge l’aborto come un diritto fondamentale, seppur erroneamente inteso”. 

 

Ma a esultare della scelta del Papa sono anche i liberal, che ricordano come mons. Ron Hicks sia vicino alle istanze dei migranti e dei più poveri. E’ stato per quattro anni in Messico e in Salvador in qualità di direttore regionale dell’organizzazione caritativa Nuestros Pequeños Hermanos. Lì ha approfondito la figura di Óscar Romero, il vescovo assassinato nel 1980, che è diventato il suo “santo preferito”. Gli anni trascorsi in America centrale lo hanno portato anche a incontrare settori della Teologia della liberazione. Un profilo del genere rende quindi impossibile ogni incasellamento: progressista? Conservatore? Né l’uno né l’altro. E’ una nomina che rende più o meno tutti felici e che si può definire perfettamente leoniana. Unire anche i lontani e pacificare. Dolan era l’ultimo travolgente leader della stagione delle guerre culturali, fino al punto da appoggiare esplicitamente Donald Trump (era alla Casa Bianca alla cerimonia d’insediamento), stagione che non fa sussultare il cuore dell’agostiniano Robert Prevost. Per New York ha scelto un missionario che parla spesso di poveri (e il tema è, questo sì, assai caro al Papa eletto lo scorso maggio), che ha a cuore la causa dei migranti e che è noto per il suo low profile. Pochissima esposizione mediatica, come del resto il nuovo prefetto del dicastero per i Vescovi, mons. Filippo Iannone. Pare quasi, Ron Hicks, il calco di Leone, il Pontefice che non ha scritto neppure un libro in vita sua. 

 

E’ presto per tirare le somme, la sua èra è appena agli inizi e il Giubileo che molti processi ha giocoforza rallentato non è ancora terminato. Però appare evidente come Prevost si affidi a figure che vanno al di là dei consueti schemi con cui si riducono le questioni di Chiesa e i suoi stessi protagonisti. Nelle sue scelte conta molto il rapporto personale e più che gli orientamenti “ideologici” sulle diverse tematiche all’ordine del giorno vale il cursus honorum. Si è capito che avere avuto un’esperienza al di fuori della propria comfort zone è un punto in più, perché aiuta ad allargare prospettive ed orizzonti. Proprio come lo yankee di Chicago finito a fare il vescovo a Chiclayo. Ecco perché se appaiono risibili i commenti social sul “vescovo socialista” che arriva a New York, non centrati risultano anche i cori di giubilo dei liberal convinti d’aver “conquistato” la Grande Mela. Leone XIV è nato nel 1955, quando il Concilio è iniziato aveva sette anni. Quando si è concluso, dieci. Non ha vissuto la contrapposizione tra i fronti e poco su di lui ha impattato il post Concilio, che ad esempio sconvolse il perito Joseph Ratzinger. Il superamento di quella fase non è, per lui, il problema. Per questo tirare fuori le stantie categorie di “destra” e “sinistra” ha poco senso. A scorrere il profilo di mons. Hicks, a leggere le sue omelie e i suoi testi (tutti caratterizzati da una prospettiva fortemente cristocentrica, proprio come piace a Leone), a sentire chi lo conosce, potrebbe essere annoverato sia tra i conservatori sia tra i progressisti. E quando è così, si comprende con facilità che non è né l’uno né l’altro. Probabilmente, come diceva un esperto di questioni ecclesiastiche americane, è solo “un bravo cattolico” che ha dimostrato innanzitutto una grande capacità d’ascolto. Anche di chi non la pensa come lui. Dopo anni di lacerazioni e sfinenti battaglie, è già qualcosa.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.