La strana idea della Cei su chi siano "gli uomini di pace"
Prima il Messaggio per il dialogo con gli ebrei, quindi la difesa dell'imam che giustificava il pogrom del 7 ottobre
Lunedì scorso, poche ore dopo la strage di Hanukkah sulle spiagge australiane, la Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo della Cei ha diffuso il Messaggio per la 37esima Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei, che si terrà il prossimo 17 gennaio. Citasi: “Negli ultimi tempi si sono vissuti momenti di tensione a causa di discorsi o iniziative non in sintonia con l’interlocutore o contenenti affermazioni ambigue. Non sono mancate, purtroppo, prese di posizione che hanno fomentato rigurgiti di antisemitismo. Desideriamo, pertanto, esprimere una posizione comune e condivisa della Chiesa cattolica italiana in merito al rapporto con le comunità ebraiche che sono in Italia. L’intento è quello di riaffermare ‘il vincolo’ ricordato da Nostra Aetate, chiarire i fraintendimenti, stimolare il confronto nel territorio fra le comunità cristiane e quelle ebraiche e porre alcuni punti fermi del rapporto ebraico-cristiano”. Tutto vero: due anni fa fece clamore quanto il rabbino capo di Roma, proprio in occasione di un evento come questo, disse alla Gregoriana: il dialogo ha fatto enormi passi indietro. Altro che speranza e positività. Pesava la reazione di certo mondo cattolico – anche episcopale – al pogrom del 7 ottobre: si manifestava piena solidarietà al popolo israeliano ed ebraico, certo. Ma poi partiva la sfilza di ma e però. Per ogni trucidato da Hamas nei kibbutz si ricordava la sofferenza palestinese, quasi che si dovesse riequilibrare una sorta di ideale bilancia.
Ed è un po’ quel che si legge anche in questo Messaggio: “Rinnoviamo la nostra ferma e decisa condanna al terrorismo in ogni sua forma. Ribadiamo la nostra ferma e decisa condanna dell’atto terroristico e ignobile del 7 ottobre 2023. Siamo vicini alle vittime del popolo ebraico e a quelle del popolo palestinese nella tragedia di Gaza e auspichiamo una soluzione che consenta a entrambi, come anche agli altri gruppi presenti in quei territori, una convivenza pacifica”. E comunque, si legge ancora, “ci riserviamo d’altronde la libertà e la possibilità di esercitare uno sguardo critico sulle scelte dei governi israeliani, come peraltro facciamo con i governi di altri paesi e verso il nostro stesso governo. In questa luce, nel cammino verso una ‘via italiana del dialogo’ è sempre più urgente interrogarci a proposito del giusto rapporto fra religione e spazio pubblico”. Argomentazioni un po’ prolisse ma tipicamente italiane (e non da oggi). La Conferenza episcopale tedesca, ad esempio, taglia corto e condanna quel che c’è da condannare sostenendo che il male assoluto c’è ed è l’antisemitismo. L’arcivescovo di Salisburgo, vedendo la scorsa estate le manifestazioni austriache contro il governo israeliano disse che in realtà dietro alla maschera anti Netanyahu si celava odio per gli ebrei in quanto tali.
In ogni caso, letto e riletto il Messaggio della Cei, risulta lecito domandarsi come tali auspici di amicizia, condivisione e profondo rispetto possano conciliarsi con le recenti dichiarazioni di mons. Derio Olivero, il vescovo di Pinerolo che – ironia della sorte – della Commissione che ha redatto il Messaggio in oggetto è presidente. Mons. Olivero è da anni impegnato nel campo dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso, ed è colui che per primo e pubblicamente ha avversato la decisione di espellere l’imam Mohamed Shahin. Per questo ha ricevuto insulti e perfino minacce di morte. Il vescovo ha sostenuto che Shahin “è uomo per il dialogo e la collaborazione”, “aperto al confronto con le istituzioni”. In ogni caso, va detto, Olivero si è appellato contro l’espulsione a favore di un regolare processo. Il problema è che il vescovo sostiene che quanto detto da Shahin rientri nella “libertà di espressione”. Ieri a Repubblica: “La frase dell’imam sulla strage del 7 ottobre come una semplice risposta ad anni di violenze patite è irricevibile, oltre che inaccettabile. Il 7 ottobre è stato un vile atto terroristico, non si discute”. Fatta la premessa, ecco lo svolgimento: “Ma se si dovessero incarcerare tutti coloro che esprimono opinioni diverse dalle nostre, dovremmo costruire nuove prigioni. Le parole improprie e pericolose vanno però sempre condannate, che siano pronunciate da islamici, cristiani, ebrei o atei”. Che cosa aveva “liberamente” espresso Mohamed Shahin, l’uomo del dialogo e della pace? Giova ricordarlo: “Io personalmente sono d’accordo con quello che è successo il 7 ottobre. Noi non siamo qui per la violenza. Ma quello che è successo il 7 ottobre 2023 non è una violazione, non è una violenza”. Sarà pure libertà d’espressione, principio cardine d’ogni ordinamento democratico (di certo non quello in vigore a Gaza e dintorni). Quanto meno, però, andrebbe rivista la definizione un po’ bucolica e fin troppo abusata di “uomo di pace”. Altrimenti c’è il rischio che i lunghi messaggi per le varie giornate di dialogo promosse dall’episcopato finiscano rapidamente nei cestini di chi dovrebbe leggerli e meditarli.