No, Leone XIV non è Francesco

Oltre la nenia "continuità-discontinuità". Chi è davvero quest'agostiniano di Chicago divenuto Papa che va in Libano e parla di fede, logos e speranza?

Matteo Matzuzzi

Il primo viaggio apostolico all'estero, fra Turchia e Libano, ha delineato il profilo del Pontefice, che affronta sì i grandi drammi del mondo, ma li declina secondo fede, logos e speranza. Scontentando qualcuno, che avrebbe preferito forse un pugno più duro verso i potenti "sfruttatori"

"Con un gesto di rottura, Leone XIV segna differenze con Francesco nella sua visita alla Moschea blu. Il passaggio in Turchia ha esposto contrasti di stile con il suo predecessore, dai gesti interreligiosi alla sicurezza, alla lingua e al protocollo”, scriveva la vaticanista argentina Elisabetta Piqué sulla Nación. In effetti, dopo sette mesi di pontificato, Prevost era atteso al varco nella sua prima vera uscita pubblica che non fosse il martedì di relax a Castel Gandolfo, tra partite a tennis e nuotate. Un viaggio internazionale comporta poche pause e, sovente, qualche inconveniente, dove si vede il Papa nella sua – per così dire – naturalezza. Lo si attendeva al varco nei conciliaboli vaticani, tra pretini ancora indecisi se rivestire la talare anche quando non richiesto o mantenere il clergyman, ma anche nei salotti dei cardinali. Pure tra le loro eminenze di cosiddetta affiliazione bergogliana, che in Conclave c’erano e votavano. Chi è davvero Leone XIV? s’era domandato l’arcivescovo di New York Timothy Dolan in un incontro pubblico di fine estate. Non lo sapeva bene neppure lui che, molto probabilmente, il nome di Prevost l’ha convintamente messo nero su bianco sulla scheda in Sistina. Sono stati mesi in cui l’agostiniano fatto Papa è apparso composto, assai istituzionale, ligio alle forme e ai protocolli. Indubitabilmente meno imprevedibile di Francesco, che entrava quasi di soppiatto nell’ambasciata russa per chiedere la fine dei bombardamenti su Kyiv, imperlando di freddo sudore la fronte dei maggiorenti della Segreteria di stato. Un Papa, Leone, che mai ha improvvisato, fedele ai testi preparati dagli uffici competenti (solo qualche banale ma utile correzione, di tanto in tanto), deciso nel leggere perfino il saluto alla folla dopo l’elezione. Ecco allora che la Turchia, e poi il Libano, erano attesi come la prova del nove per capire di più su quest’uomo divenuto Vicario di Cristo che non ha scritto neppure un libro in vita sua, che è yankee ma a modo suo, di Chicago in Illinois ma anche di Chiclayo in Perù. Ovviamente, se ne assicurava l’indubbia continuità con Francesco, riproponendo di nuovo gli schemi visti dodici anni fa, quando dinanzi alle mosse “innovative” del Papa preso alla fine del mondo si tentava, chissà poi perché, di fissare alla stregua d’un dogma l’incedere sui medesimi passi di Benedetto XVI. A cambiare era semmai lo stile. Dodici anni dopo s’è appurato che di continuità, fatta salva quella appunto dogmatica (e ci mancherebbe altro) ce n’è stata poco, e non solo nello stile: era un’idea diversa di come ridestare una fede in molte parti del mondo assopita, una concezione che non appariva in sintonia riguardo le priorità da mettere in capo all’agenda. Aulicamente, si può ben dire che guardare il centro dalla periferia risultava diverso che guardare quel centro standoci in mezzo. Da maggio scorso si è tornati a certificare la granitica continuità. Che poi, bisognerebbe chiarirsi in cosa essa consista. Piqué, che tra l’altro ha da poco mandato in stampa con Gerard O’Connell un libro che racconta i segreti del Conclave e si conclude con la sostanziale certificazione della continuità quasi da cordone ombelicale fra Leone e Francesco, già elencava quel che distingue i due Pontefici. E non sono mere questioni di contorno. Il rispettoso rifiuto di pregare rivolto alla Mecca all’interno della Moschea Blu non può essere derubricato a questione di “preferenze personali”: non è il misterioso “preferirei di no” che Melville mette in bocca continuamente allo scrivano Bartleby. E’ una scelta ben determinata, che va in controtendenza rispetto a quanto fatto dai due immediati predecessori, Benedetto XVI e Francesco, che in quel luogo silenziosamente pregarono. Leone no, e non solo perché curioso di fare un tour guidato tra le bellezze del luogo. Forse, a motivarlo è stata la convinzione che il rispetto più alto, foriero di un dialogo davvero integrale, consista nell’evitare commistioni strane che hanno più il sapore della posa a favore di telecamera che il passo per qualcosa di più profondo. Dopotutto, avrebbe poco senso che un amico musulmano, invitato al matrimonio d’un cattolico, si mettesse a recitare le sure coraniche davanti al crocifisso in chiesa. 

 

Si è notato, nei gesti e nei discorsi tenuti da Leone, un’insistenza marcata su aspetti cristologici e legati alla fede. Non che mancassero in Francesco, ma il tenore delle sue parole – specie nei viaggi internazionali, e soprattutto quando si recava nei luoghi dove la sofferenza umana era più lacerante – aveva inevitabili ricaschi politici che, non di rado, comportavano anche frizioni o incidenti diplomatici. Prevost ha parlato di pace, l’ha fatto soprattutto in Libano, terra straziata da decenni di guerre intestine ma anche laboratorio di convivenza fra musulmani e cristiani. Terra dove, ha detto,  “l’eco del Logos non è mai caduta nel silenzio, ma continua a richiamare, di secolo in secolo, coloro che desiderano aprire il loro cuore al Dio vivente”. Di pace e speranza ha parlato in ogni discorso, con metafore e richiami studiati. Ha sempre evitato, però, di impattare i tanti ostacoli posti sul terreno. Innumerevoli, in quel luogo e in questo tempo. Ha accennato al conflitto nella Striscia di Gaza, implicitamente. Di certo non come si sarebbero attesi i più, convinti che se il Papa va in Terra santa (il Libano è Terra santa), di certo non può non dire qualcosa su quel che accade poco distante. Su Israele. Magari pure su Netanyahu. Leone XIV ha lambito la questione, preferendo non prenderla di petto, forse anche consapevole che se l’avesse fatto ciò avrebbe inevitabilmente dato una caratura politica all’intero viaggio apostolico. Davanti alla moltitudine di giovani festanti che l’hanno accolto a Bkerké, davanti alla sede del Patriarcato maronita, il Pontefice è stato chiaro: “Mi avete chiesto dove trovare il punto fermo per perseverare nell’impegno per la pace. Carissimi, questo punto fermo non può essere un’idea, un contratto o un principio morale. Il vero principio di vita nuova è la speranza che viene dall’alto: è Cristo! Gesù è morto e risorto per la salvezza di tutti. Egli, il Vivente, è il fondamento della nostra fiducia; Egli è il testimone della misericordia che redime il mondo da ogni male”. Tutto deve ricondursi alla preghiera, anche quando si parla di pace: “I cattolici e gli ortodossi sono chiamati a essere costruttori di pace. Si tratta certamente di agire e di porre delle scelte e dei segni che edificano la pace, ma senza dimenticare che essa non è solo il frutto di un impegno umano, bensì è dono di Dio. Perciò, la pace si chiede con la preghiera, con la penitenza, con la contemplazione, con quella relazione viva col Signore che ci aiuta a discernere parole, gesti e azioni da intraprendere, perché siano veramente a servizio della pace”.

 

Nella sua prima omelia da Papa, nella Cappella Sistina, Leone fece capire che il suo programma si riassumeva in una frase: sparire perché rimanga Cristo. “Farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato, spendersi fino in fondo perché a nessuno manchi l’opportunità di conoscerlo e amarlo”. Parole impegnative, specie se dette subito, all’inizio del pontificato. Parole che però rischiano di creare un bell’effetto e poco altro, se non contestualizzate nell’esperienza quotidiana. Una bella cornice senza quadro. Qualche giorno fa, sostando in preghiera nella grotta di San Charbel, eremita molto conosciuto in oriente e meno alle nostre latitudini, Leone ha ripreso e ampliato il tema posto all’indomani dell’elezione, rassicurando sul fatto che quel quadro esiste. Ha domandato quale sia l’eredità “di quest’uomo che non scrisse nulla, che visse nascosto e taciturno, ma la cui fama si è diffusa nel mondo intero”. La risposta data dal Papa è stata semplice e al contempo rigorosa, da matematico qual è: “Lo Spirito Santo lo ha plasmato, perché a chi vive senza Dio insegnasse la preghiera, a chi vive nel rumore insegnasse il silenzio, a chi vive per apparire insegnasse la modestia, a chi cerca le ricchezze insegnasse la povertà. Sono tutti comportamenti controcorrente, ma proprio per questo ne siamo attratti, come l’acqua fresca e pura per chi cammina in un deserto. In particolare, a noi vescovi e ministri ordinati, San Charbel richiama le esigenze evangeliche della nostra vocazione. Ma la sua coerenza, tanto radicale quanto umile, è un messaggio per tutti i cristiani”. Silenzio, preghiera, modestia, povertà. Tutto e solo per Cristo. 

 

Si torna alla domanda iniziale:chi è allora questo settantenne agostiniano catapultato quasi d’emblée sul trono petrino? E’ senza dubbio un uomo votato a una profonda ricerca spirituale. Un giornalista gli ha chiesto: “Mi dica un libro oltre a sant’Agostino, che potremmo leggere per capire chi è Prevost”. La risposta del Papa, da lui stesso rivelata sull’aereo che lo riportava a Roma da Beirut, è stata: “Me ne sono venuti in mente diversi, ma uno è un libro chiamato La pratica della presenza di Dio’. E’ un libro molto semplice, scritto da qualcuno che non dà nemmeno il suo cognome, frate Lorenzo della Resurrezione. L’ho letto molti anni fa. Ma descrive, se vogliamo, un tipo di preghiera e di spiritualità in cui si offre semplicemente la propria vita al Signore e si permette al Signore di guidare. Se vuoi sapere qualcosa di me, questa è stata la mia spiritualità per molti anni. In mezzo a grandi sfide – vivere in Perù negli anni del terrorismo, essere chiamato al servizio in luoghi dove non avrei mai pensato di essere chiamato – io confido in Dio, e questo messaggio è qualcosa che condivido con tutti”. A Istanbul ha parlato della sfida che i cristiani hanno davanti, “un ‘arianesimo di ritorno’, presente nella cultura odierna e a volte tra gli stessi credenti: quando si guarda a Gesù con ammirazione umana, magari anche con spirito religioso, ma senza considerarlo davvero come il Dio vivo e vero presente in mezzo a noi. Il suo essere Dio, Signore della storia, viene in qualche modo oscurato e ci si limita a considerarlo un grande personaggio storico, un maestro sapiente, un profeta che ha lottato per la giustizia, ma niente di più. Nicea ce lo ricorda: Cristo Gesù non è un personaggio del passato, è il Figlio di Dio presente in mezzo a noi, che guida la storia verso il futuro che Dio ci ha promesso”.

 

Sembra quasi che Leone voglia tornare ai fondamentali, alle basi della fede che si danno per scontate ma che nella contemporaneità così liquida e corrosa da solitudini e frenesie sono in realtà dimenticate. Di più: risultano difficili anche solo da capire. Qualcuno potrà definire i suoi discorsi convenzionali, che poco scaldano le menti e i cuori di chi cerca il titolo per un post o un video da lanciare e destare l’interesse delle masse. Altri potranno non comprendere appieno il significato più profondo dei richiami di Prevost, disorientati da questo Papa americano che parla di silenzio e preghiera mentre vedono ogni due minuti manifestarsi sui propri smartphone irritanti pubblicità di rampanti preti in sneakers che promuovono app per pregare quando si è in aeroporto (come se servisse una app per dire un’Ave Maria o per puntare lo sguardo alle cose di lassù, foss’anche per dieci secondi). Eppure, l’esultanza dei libanesi al santuario di Harissa o il calore dei giovani a Bkerké fanno capire che questi discorsi trovano, in certe zone della terra, terreno fertile. Lo si era visto anche un anno fa a Timor est, dove buona parte della popolazione dell’isola si era radunata in devoto raccoglimento per vedere dal vivo Papa Francesco, il rappresentante di Cristo recatosi fin lì, quasi alla fine del mondo. Il Papa americano, nato in una delle città più occidentali che ci siano, che s’interessa di intelligenza artificiale e che ha l’Apple Watch al polso, con una tranquillità a dire il vero poco agostiniana dice ai cattolici d’occidente che la crisi in cui sono immersi, fatta di indifferenza al fatto religioso, può essere superata. Basta guardare le cose in modo diverso, come fanno i loro fratelli e le loro sorelle che vivono in contesti dove la possibilità d’esprimere la propria fede non è scontata. Senza troppe sovrastrutture, con semplicità, giorno dopo giorno. “Nella preghiera, nel lavoro, negli incontri e nella nostra routine quotidiana”, scrisse poche settimane dopo l’elezione, nella sua prima intenzione di preghiera. Proprio come il fratello Lorenzo del libro citato da Leone, che trovava Dio anche pelando le patate nella cucina del monastero carmelitano di Parigi.

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