Al cuore del martirio

Guerra di religione o conflitto sociale? Vaticano e vescovi nigeriani hanno pareri diversi 

In Nigeria le violenze contro i cristiani si susseguono. Ma per il cardinale Parolin il problema non è il jihadismo. La replica del vescovo nigeriano: “Non è il cambiamento climatico a uccidere i sacerdoti”

Che l’Africa subsahariana sia l’epicentro dell’avanzata jihadista dopo il crollo del Califfato islamico nel vicino oriente è dimostrato da numeri, testimonianze e rapporti di organizzazioni indipendenti. Dal Mali al Niger, dal Burkina Faso al Camerun, i cristiani constatano il deterioramento progressivo della libertà religiosa. La culla del radicalismo è la Nigeria, patria di Boko Haram, dove in un quindicennio i cristiani trucidati dai pastori fulani sono migliaia. La scorsa settimana è stato presentato a Roma l’ultimo rapporto di Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs)  che sottolineava un ulteriore peggioramento della situazione. “Secondo il Centro per gli studi strategici sull’Africa – si legge nel dossier – i gruppi islamisti militanti rappresentano tuttora una delle principali fonti di instabilità in cinque regioni del continente. Solo nel 2024, questi gruppi hanno provocato la morte di 22.307 persone. Il Sahel resta la regione più interessata al mondo dal terrorismo e dalla violenza jihadista. Qui si concentra oltre la metà di tutti i decessi legati al terrorismo registrati nel 2024. Come riportato nel Global Terrorism Index 2025, cinque dei dieci paesi più colpiti si trovano in quest’area, a conferma del ruolo centrale del Sahel nell’attuale ondata di estremismo violento”.

 

In questo contesto ha fatto molto discutere, soprattutto oltreoceano e in Africa, quanto detto dal cardinale Pietro Parolin a margine dell’evento. Il segretario di stato era presente, tenendo la relazione principale sulla libertà religiosa. In uno scambio riportato dal National Catholic Register, Parolin ha detto che quello in Nigeria “non è un conflitto religioso, ma piuttosto un conflitto sociale, ad esempio, tra pastori e agricoltori. Teniamo presente che molti musulmani che vengono in Nigeria sono vittime di questa intolleranza. Quindi, questi gruppi estremisti, questi gruppi che non fanno distinzioni per far avanzare i loro obiettivi, i loro obiettivi, usano la violenza contro chiunque percepiscano come un avversario”. Non è una posizione isolata: negli anni sono state presentate relazioni e scritti diversi libri che pongono la crisi climatica come causa principale del deterioramento della convivenza tra etnie e religioni diverse. Si sostiene che la riduzione dei pascoli per i pastori fulani li abbia costretti a emigrare in territori fertili, dove è forte la presenza di agricoltori di fede cristiana. Si tratterebbe, insomma, di questioni di sopravvivenza. Proprio il rapporto di Aiuto alla Chiesa che soffre chiarisce intanto che sebbene “non tutti i fulani sono jihadisti”, “un numero significativo di reclute in alcuni gruppi armati nella regione appartiene a questa etnia”. I fulani costituiscono uno dei gruppi etnici più diffusi in Africa: sono presenti in almeno venti paesi del continente e il loro numero è stimato fra i 25 e i 40 milioni. La loro identità “è profondamente influenzata dall’islam sunnita” e sono “storicamente legati all’islamizzazione della regione”. 


Il problema è la divisione in caste e fra quelle inferiori il reclutamento jihadista è facile e frequente: “Il jihadismo funziona come mezzo di ascesa sociale simbolica e come strumento di vendetta intraetnica”. Lo stesso rapporto di Acs sottolinea che tra i fattori esterni che giocano un ruolo sempre più rilevante nella radicalizzazione islamista ci sono l’esclusione sociale sistemica, la riduzione delle tradizionali rotte pastorali a causa della crescita demografica e del cambiamento climatico, i conflitti agrari con le popolazioni sedentarie per l’accesso a terra e acqua, la stigmatizzazione etnica e le violenze da parte delle forze statali o di milizie locali”.  Al di là di ciò, però, in Nigeria questi conflitti “si sono trasformati in violenze sistematiche che vanno oltre le tradizionali dispute rurali per la terra e l’acqua”, al punto che gli episodi di violenza sono parte di una vera “campagna di pulizia etnica e religiosa. La maggior parte delle vittime nei conflitti con i fulani è cristiana, e le aree colpite coincidono in larga parte con quelle che in passato hanno resistito all’espansione islamica del XIX secolo”. 


Non è un caso che proprio mentre a Roma si presentava il rapporto di Acs sulla libertà religiosa, a Londra – durante analoga presentazione – il vescovo ausiliare di Maiduguri, una delle diocesi nigeriane più interessate dagli scontri – usava ben altri termini rispetto a quelli prudenti del segretario di stato: “Mentre il conflitto non riguarda solo la religione, è altrettanto semplicistico non vedere la dimensione religiosa come un fattore significativamente esacerbante, soprattutto quando chiese, sacerdoti e altri potenti simboli del cristianesimo vengono attaccati, apparentemente impunemente”. Aggiungeva, mons. John Bakeni, che “negli ultimi anni, la violenza si è intensificata – tra cui orribili massacri nell’ultimo anno – in molti degli attacchi, i militanti spesso prendono prima di mira le chiese”. Infine, la chiosa: “Dobbiamo essere coraggiosi e avere il coraggio delle nostre convinzioni per dire, mentre le cause sono complesse, il cambiamento climatico non ha mai rapito le ragazze di Chibok, ucciso sacerdoti o bruciato chiese”.

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