Leone, il Papa che delude

Matteo Matzuzzi

Troppo impostato, silente e lento: non è Pontefice da neppure cinque mesi e già è criticato a destra e a sinistra. Fra nostalgie per Francesco e smania di voltare pagina, il richiamo di Prevost al “saperci fermare” fatica a imporsi

Papa Leone XIV come il principe Myskin, il protagonista de “L’idiota” di Fëdor Dostoevskij. Il teologo tedesco Andreas G. Weiss si butta sulla grande letteratura russa dell’Ottocento per scorgere un paragone non tanto con il profilo del Pontefice da poco regnante, quanto per il clima percepibile tra chi ruota attorno alle cose vaticane e alla stessa figura del Papa. Tornato a Pietroburgo, il povero Myskin fu subito bollato come troppo silenzioso, troppo debole, troppo fuori dal mondo: “Si vede in lui solo una mancanza e non la possibilità di un altro modo di essere presenti. E proprio qui sta il punto del romanzo: ciò che all’apparenza sembra debolezza, si rivela invece un modo diverso, più profondo, di reagire alla realtà”, scrive Weiss in un commento pubblicato sul portale della Chiesa tedesca.

 

Dostoevskij mostra insomma come nascono i giudizi affrettati e, soprattutto, quanto poi sia complicato correggerli. Leone è Papa da cinque mesi, di mezzo c’è stata l’estate, eppure s’avverte un sentimento se non di delusione (termine eccessivo) quantomeno di disorientamento. Troppo impostato, si sente dire: troppo silente, poco incisivo sulla scena geopolitica, poco rapido nel ridisegnare la macchina di governo attuando l’atteso (da qualcuno) spoils system o nel confermare lo status quo (come auspicato da altri). Ci sono voluti quattro e mesi e mezzo per scegliere il suo successore al dicastero per i Vescovi, e qualcuno ha fatto subito elegantemente notare che Francesco ci mise due settimane a trovare chi dovesse prendere il suo posto a Buenos Aires, non proprio la diocesi più insignificante dell’orbe terracqueo. Per nominare il secondo segretario, pescato nella diocesi di San Miniato, sempre quattro mesi e mezzo. E poi la guerra, il mondo che va in mille e più pezzi e la voce del Papa che lancia appelli il mercoledì e la domenica, fa un paio di battute il martedì sera lasciando Castel Gandolfo ma non mostra quella forza d’urto bergogliana che entusiasmava le sale stampa e garantiva agli stressati corrispondenti di questioni vaticane un titolo d’impatto.

 

Leone di’ qualcosa, si dispera chi attende dal Pontefice un segnale, una dritta, un’indicazione sulla guerra e sulla pace, sui preti celibi e le diaconesse, sul rito amazzonico e la messa vetus ordo. Si è in astinenza del Papa che in un’ora di intervista ad alta quota interveniva su tutto, si trattasse del dialogo interreligioso in Svezia o delle elezioni americane, dell’aborto o dei migranti, dei vaccini per il Covid o dei rapporti con la Cina. Sì, c’è il libro-intervista di Leone pubblicato in Perù dove le questioni affrontate sono tante e variegate, ma il tutto è condito da “per ora”, “non so”, “vedrò”. Anche perché, sottolinea Robert Prevost – ed è un dettaglio che poi tanto dettaglio non è – il suo compito principale è quello di confermare i fratelli e le sorelle nella fede. Il resto viene dopo e non è obbligatorio che il Papa abbia un’opinione formata su tutto.

 

Poi, tra l’altro, diventa complicato cambiarla se mutano le situazioni. E a volte è meglio non dire nulla che lasciarsi scappare giudizi o ripetere confidenze di amici, ospiti e interessati collaboratori che finiscono col determinare casi diplomatici non di poco conto (la bandiera bianca da sventolare quando “vedi che sei sconfitto” ha lasciato cicatrici profonde sui cattolici ucraini) e che si sarebbe potuto con facilità evitare. Certo, dopo una prima fase fatta di discorsi cesellati fino ai punti e alle virgole (compreso il discorso d’esordio, alla Loggia delle benedizioni), Leone s’è smarcato un po’ dalla trama che pareva consolidata: anche lui si ferma al tramonto a chiacchierare con i giornalisti assiepati davanti alla residenza di Castel Gandolfo e risponde a braccio a ogni cosa gli venga domandata: dal processo Becciu a premi americani consegnati da potenti porpore a potenti senatori, fino ai ventuno punti del piano Trump. E Leone risponde con cordialità, anche se lo sguardo faceva trapelare che a lui in fin dei conti interessava più che altro sedersi in auto e partire. 

 

C’è chi si dice deluso davanti a un caffè sorbito nei dintorni di Borgo e chi lo fa tuonando dalle pagine dei giornali, come ha fatto don Paolo Farinella, il “prete cattolico dal cuore laico che spesso è solito firmarsi, parafrasando Luis Buñuel, ‘Paolo Farinella, prete, ateo per grazia di Dio’” (così scrive nel suo profilo biografico). Farinella sul Fatto Quotidiano ha scritto che “il Papa non si pronuncia, ma soffre, si addolora, invita, esorta, supplica e… fa l’americano. Forse, se avesse riflettuto qualche secondo in più, avrebbe fatto meglio a chiamarsi Leoncello I, tenero cucciolotto”. C’è chi, ed è la destra ultraconservatrice americana, che s’indigna appunto per il premio al senatore democratico sedicente cattolico Dick Durbin, impegnato sì nella lotta alla discriminazione contro i migranti ma fierissimo cultore dell’aborto alla stregua boniniana. E c’è chi tuona contro il Papa – più o meno gli stessi che gli contestano una risposta un po’ soft sul riconoscimento a Durbin – perché s’è prestato alla cerimonia celebrativa del decennale di Laudato Sì arrivando al punto di imporre le mano su un blocco di ghiaccio. Qui il fronte tradizionale s’è però diviso, ricordando che benedire l’acqua lo si è sempre fatto anche in tempi non troppo arcaici e di certo pre Vaticano II.

 

Nota Weiss che “in alcune analisi sembra addirittura che non valga nemmeno la pena provarci a prendere sul serio Leone XIV come segno di speranza. Il verdetto è chiaro: un uomo della continuità, un custode delle vecchie strutture, troppo poco deciso nelle scelte, troppo cauto nelle parole”. Ma è qui che si dimostra l’errore: il problema non è tanto il Papa che dà da mangiare ai pesci nel laghetto di Castel Gandolfo, quanto le aspettative che “i delusi” si erano creati. E’ utile ripercorrere i commenti a caldo che l’universo mondo ha inevitabilmente fornito nell’immediato post elezione. Leone XIV uomo della continuità assoluta con Francesco. Magari un po’ più riservato, “timido”, ma non v’era alcun dubbio sul fatto che fosse un Francesco II con altro nome. Una continuità che però non veniva avallata solamente dai fatti (nomine, provvedimenti, gesti, omelie e discorsi), ma anche dallo spirito: americano sì ma più peruviano, missionario e quindi inevitabilmente assimilabile al programma del predecessore su migrazioni e ambiente. Il problema è che di Robert Francis Prevost si sapeva poco, pochissimo. Lo stesso cardinale Timothy Dolan, scherzando ma non troppo, qualche settimana fa ha detto che nei giorni delle congregazioni generali la domanda che ricorreva in Aula e nei corridoi era “chi è Prevost?”. Una domanda che, ha chiosato l’arcivescovo di New York, “ci facciamo ancora oggi”. Anche lui, Dolan, denotava una certa impazienza nel cercare appigli per decrittare l’imperscrutabilità leonina. Cardinali e vescovi vengono ricevuti da lui appena lo richiedono, con estrema cortesia. Parlano e qualche volta si lamentano di storie passate e archiviate. Lui ascolta, non di rado annuisce, poche volte interviene e fa capire come la pensi. 

 
E’ come un tempo sospeso, quello della riflessione e della valutazione. La Chiesa, a ogni cambio di pontificato, sperimenta sempre il medesimo copione: prima l’attesa della novità, quindi la convinzione che qualcosa accadrà, poi la delusione e infine la rassegnazione. E questo perché su ogni Papa si riversano aspettative le più disparate, inevitabilmente in conflitto l’una con l’altra. Ogni Papa, scrive Weiss, “diventa la proiezione per desideri che vanno ben oltre ciò che un essere umano può soddisfare”. E quindi si finisce con l’illudere e poi deludere. Si prenda la tragedia di Gaza: come la pensa Robert Prevost? Nelle settimane dopo l’elezione risultava palese una estrema prudenza nell’affrontare la questione e per comprenderlo era sufficiente soppesare i termini usati nelle occasioni pubbliche e negli appelli rivolti ai governanti. Quindi, fu l’immediata traduzione mediatica e social, il Papa è filoisraeliano. Non parla di genocidio come Francesco, osservava qualcuno. Poi, a luglio, quando un razzo colpì il complesso della parrocchia cattolica di Gaza City, Leone smentì al termine di un Angelus pronunciato a Castel Gandolfo la ricostruzione fornita dall’Idf e dal governo Netanyahu. Divenne quindi, automaticamente, antisraeliano. E che dire del momento in cui ricevette in udienza il presidente Isaac Herzog? Di nuovo, filoisraeliano, si lesse da qualche parte: Papa Francesco non l’avrebbe mai fatto, si scrisse. Altri passarono ore invece a decrittare i segnali, dal sorriso “per la prima volta assente” sul volto del Pontefice, “chiaramente” a disagio nell’ospitare “il capo di uno stato genocidario”. 

 

Il fatto è che dal nuovo Papa – da ogni nuovo Papa – ci s’aspetta che appena vestita la talare bianca risolva i problemi stratificati e rimasti sul tavolo alla morte del predecessore. E’ andata sempre così, nella storia. Stavolta ci sono di mezzo le diaconesse, due secoli e mezzo fa il destino della Compagnia di Gesù (a Leone è andata tutto sommato bene). Così, a Prevost si chiedeva una parola su diaconato e celibato, su sinodalità e collegialità, su guerra e pace, su Putin e Zelensky, su Trump e Netanyahu. Tutto e subito e sempre sotto la lente del confronto: tornerà nel Palazzo apostolico sconfessando il predecessore? Va in vacanza nonostante Francesco preferisse restare a Santa Marta? Inevitabile in un’epoca in cui tutto è confronto e paragone, trattasi di ascolti televisivi o di sfilate modaiole. Con quest’americano figlio di sant’Agostino che ha passato buona parte della sua vita in Perù, ogni cosa è stata ancor più complicata: al di là di qualche sparuto caso, non esistono libri o interviste che delineino il pensiero prevostiano. “Ma qualcuno sa cosa pensa davvero?”, disse un osservatore di cose vaticane il giorno dopo l’elezione, mentre esperti e giornalisti sudavano sette camicie cercando spunti o elementi per tratteggiarne un profilo capace di indicare – con somma prudenza – che tipo di pontificato avremmo dovuto attenderci. L’anomalia non è Prevost il temporeggiatore: l’anomalia è stato il pontificato di Francesco. Anomalo nel modo e nello stile di governo, anomalo nella stessa gestione della figura papale. Per cui diventa oggi strano che il Papa indossi la mozzetta rossa, che fino a dodici anni fa nessuno notava. E diventa strano se il Papa non interviene con tutta la forza che il suo ruolo ha in sé nelle crisi geopolitiche più gravi e attuali. Il poco che dice Leone viene subito percepito come “debolezza”: ma i Papi, nella storia – anche quella recente – hanno parlato quando si doveva parlare. Anche qui, è stato Francesco a innovare: interviste a ruota libera in aereo che potevano anticipare novità destabilizzanti o gaffe fuori luogo, come quando a strage di Charlie Hebdo ancora fresca, disse che “se uno dà un pugno alla mamma, gli spetta un pugno ed è normale”. Il “sabato santo” di cui parla Leone nelle sue udienze del mercoledì, quello del silenzio e della riflessione, è una traccia per il pontificato: non serve che il Papa sia onnipresente ed onnisciente. Non è necessario che su ogni problema del mondo o della curia lui dica la sua. E se si ferma a parlare con i giornalisti sul ciglio di una strada quasi campestre le sue parole vanno prese per quel che sono: una chiacchierata breve e nulla di più, mica è magistero ordinario. 

 
S’è scritto che Leone è uomo di dialogo e tanta riflessione, ed è per questo che tutto tarda, deludendo attese e speranze. Ma è solo un verso della medaglia: Francesco quando fu eletto disse di sentire che il suo sarebbe stato un pontificato breve, tre-quattro anni, e che per questo doveva agire subito. Agire per rispettare il mandato ricevuto dai cardinali in Conclave e nelle congregazioni del pre Conclave. Prevost ha appena compiuto settant’anni, non si sa se abbia anche lui sensazioni da chiromante, ma almeno sulla carta ha davanti a sé un pontificato più disteso nel tempo. E’ una prospettiva lunga che – a differenza di Bergoglio – consente anche di far decantare situazioni, spegnere bollori, calmare acque quasi tempestose, senza pugni da sbattere sul tavolo o teste da far metaforicamente rotolare appena asceso al Soglio. E questo è un modo di governo, oltre che uno stile. Ecco perché i suoi “non so”, “per ora” e “vedrò” consegnati ad Elise Ann Allen nell’intervista di luglio e pubblicata a settembre non sono parole gettate a caso perché non sapeva cosa dire: sono l’indicazione di un metodo. “Noi – ha detto qualche settimana fa in un’udienza generale – facciamo fatica a fermarci e a riposare. Viviamo come se la vita non fosse mai abbastanza. Corriamo per produrre, per dimostrare, per non perdere terreno. Ma il Vangelo ci insegna che saperci fermare è un gesto di fiducia che dobbiamo imparare a compiere”. Ecco.

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