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Editoriali

Perché la sconfitta ai referendum è anche della Cei

Redazione

Il referendum è un "appuntamento che ci interpella non solo come cittadini, ma anche come custodi del bene comune" diceva mons. Francesco Savino. Eppure, vescovi impegnatissimi per il Sì ora constatano la propria irrilevanza, non riuscendo a mandare alle urne nemmeno i propri segrestani

Quando mancavano pochi giorni all’apertura delle urne, la Cei attraverso il responsabile delle Comunicazioni sociali interveniva per chiarire che “i vescovi sono tornati sulle questioni del lavoro e della cittadinanza, al centro del prossimo referendum, rispetto alle quali hanno invitato a un attento discernimento”. Niente di più, nessun invito a recarsi in massa alle urne. Forse, qualcuno ai piani alti aveva capito il rischio d’essere strumentalizzati, di vedere la Conferenza episcopale messa in mezzo al dibattito elettorale, fra cittadinanza e Jobs Act. Il tutto inserito in un quadro problematico con il governo (vedasi vicenda dell’otto per mille) e con la quasi certezza di non vedere raggiunto il quorum. Insomma, era il recupero di una “neutralità” rispetto alla questione.

Eppure, nell’ultimo frangente della campagna elettorale la Cei era intervenuta con forza, sui giornali e in tv, per perorare la causa referendaria. Il loquacissimo vicepresidente mons. Francesco Savino, vescovo di Cassano all’Jonio, era arrivato al punto da dividere l’elettorato in  buoni (i votanti) e cattivi (gli astenuti). A chi lo faceva notare, si ricordava l’invito ruiniano all’astensione, nel 2005. Paragone che ovviamente non regge: l’epoca era diversa, i quesiti non erano di emanazione landiniana e l’argomentazione dell’allora capo della Cei era più solida e logica di quella di mons. Savino. Era arrivato a dire, quest’ultimo, che votare “è espressione di civiltà matura”, che il referendum rappresentava “un appuntamento che ci interpella non solo come cittadini, ma anche, per chi vive la fede cristiana, come custodi del bene comune e responsabili della speranza che ci è affidata”. Addirittura, “una forma di resistenza civile”. A chi o a cosa non è ben chiaro, ma tant’è. Il risultato è quello noto: chiese vuote e urne pure. Con la conferma, plastica e visibile, dell’irrilevanza della Chiesa italiana, che parla molto e su tutto ma non riesce a mandare alle urne neppure i propri sagrestani.

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