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la chiesa dopo francesco
La straordinaria continuità di Papa Leone
I simboli e le parole, l'avvertimento contro “l'ateismo di fatto”. Il primo giorno del nuovo Pontefice
Forse, dopo il ciclone che per dodici anni ha tenuto in fibrillazione la Chiesa tra slanci profetici e tante contraddizioni, Robert Francis Prevost è quello che serviva. Lo dirà il tempo
Chissà, forse il programma del pontificato è tutto in quelle righe che hanno chiuso l’omelia pronunciata da Leone XIV nella sua prima messa da Papa, nella Cappella Sistina con il Collegio cardinalizio: “Un impegno irrinunciabile per chiunque nella Chiesa eserciti un ministero di autorità: sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato, spendersi fino in fondo perché a nessuno manchi l’opportunità di conoscerlo e amarlo. Dio mi dia questa grazia, oggi e sempre, con l’aiuto della tenerissima intercessione di Maria Madre della Chiesa”. Sparire perché rimanga Cristo. E’ un po’ l’identikit di quest’altro Papa preso dall’altra parte del mondo, il Papa delle Americhe (tutte e due), nato a Chicago ma col cuore in Perù, dov’è stato vicario parrocchiale e vescovo. Uomo di curia, capo della fabbrica dei vescovi. Silenzioso, mai sopra le righe, mai un accento fuori posto. La sua voce, ai più, era ignota fino al suo esordio papale sulla Loggia delle Benedizioni. E che esordio: “La pace sia con tutti voi! Fratelli e sorelle carissimi, questo è il primo saluto del Cristo Risorto”. E di Cristo, Leone ne parla in abbondanza. La sua prima omelia, breve ma densa, è cristologica. Si sofferma sul mondo “che considera Gesù una persona totalmente priva d’importanza, al massimo un personaggio curioso, che può suscitare meraviglia con il suo modo insolito di parlare e di agire. E così, quando la sua presenza diventerà fastidiosa per le istanze di onestà e le esigenze morali che richiama, questo ‘mondo’ non esiterà a respingerlo e a eliminarlo”. Dice che “anche oggi non mancano i contesti in cui Gesù, pur apprezzato come uomo, è ridotto solamente a una specie di leader carismatico o di superuomo, e ciò non solo tra i non credenti, ma anche tra molti battezzati, che finiscono così col vivere, a questo livello, in un ateismo di fatto”. Gesù Cristo al centro di tutto. Non c’è stato spazio per considerazioni sociologiche, niente riflessioni sull’economia che uccide o sul clima mortifero. Per ora. Perché sbaglierebbe chi vedesse nei simboli – pur importanti – la spia di una restaurazione, di un ritorno a un passato che, essendo appunto passato, non può più tornare. Leone XIV è apparso vestito da Papa, ieri aveva la ferula pastorale di Benedetto XVI. Ha celebrato cantando e in recto tono. Simboli, appunto. Forse, chi lo sa, aperture a quel mondo con cui Francesco non era riuscito a entrare in sintonia e che, via via, aveva determinato una frattura che ancora sanguina. Leone, che di certo è un Papa della continuità, potrebbe essere l’uomo giusto per ricucire con pazienza. E’ uomo d’ordine, la calma come criterio di fondo prima di compiere le scelte. Ieri il Vaticano ha fatto sapere che per ora conferma tutti i capi dicastero decaduti automaticamente il 21 aprile scorso alla morte di Francesco, perché desidera “riservarsi un certo tempo per la riflessione, la preghiera e il dialogo, prima di qualunque nomina o conferma definitiva”. Non è una novità, anche la frase pubblicata è la medesima di dodici anni fa.
La sua elezione è stata rapidissima e ciò significa che in Conclave è entrato già con ottime possibilità di uscirne Papa. E anche qualche conservatore deve aver scritto sulla scheda il suo nome, ritenendolo “un uomo che si è sempre comportato con grande onestà e saggezza”. I conservatori, quelli dipinti sempre come i grandi cospiratori e “nemici” dai tanti “leccacalzini” (copyright di Francesco) che hanno danzato attorno a Santa Marta per dodici anni, quasi che il pontificato conclusosi tre settimane fa fosse l’inizio della storia della Chiesa e tutto il resto il Male, il vecchio, la reazione e il freno al vento dello Spirito che soffiava con prepotenza alimentando la Barca messa in mezzo al mare. Il Papa legge un discorso scritto e parla di Cristo, fa recitare alle migliaia di fedeli (e turisti) in piazza l’Ave Maria, ricorda l’anniversario della Supplica alla Madonna di Pompei. Innovazione e tradizione che si mischiano, lasciando tutti contenti. I preti in talare che vedono l’alba di un nuovo giorno e quelli di strada che ricordano il ventennio da missionario in Perù del nuovo Pontefice. L’unità della Chiesa. Quella messa in dubbio per settimane, con retroscena su trattative in Sistina o a Santa Marta fra orate e piatti di pasta, con articoli sull’andamento degli scrutini quando non si conosce neppure l’ora in cui le votazioni hanno avuto inizio. Troppi cardinali, non si conoscono (il che è vero), c’è confusione, non sono d’accordo su nulla. Il Conclave durerà due giorni, forse tre, magari pure quattro. Quanto s’è letto e detto in questi giorni… Alla fine, in ventiquattro ore, ecco la fumata bianca e l’unità attorno a questo americano sui generis, un po’ yankee e molto latino, che è pastore in mezzo al gregge ma che in cassetto conserva i diplomi delle sue lauree.
Forse, dopo l’esuberanza di Francesco, il ciclone che per dodici anni ha tenuto in fibrillazione la Chiesa tra slanci profetici improvvisi, contraddizioni, interventismo diplomatico e politico, sinodi drammatici e dichiarazioni strabilianti, Robert Francis Prevost è quello che ci voleva: una sorta di tregua ordinata che portasse avanti la Chiesa lungo i sentieri tracciati dal predecessore. Ma con ordine, con calma e riflessione. Francesco, spesso, gettava il cuore oltre l’ostacolo. E non di rado se ne pentiva, come ammise in qualche occasione. Forse, tornando indietro, non avrebbe parlato di bandiere bianche da sventolare davanti al nemico, non avrebbe apostrofato il Patriarca di Mosca con epiteti non proprio da prontuario del perfetto diplomatico, non avrebbe buttato lì la parola “genocidio” nel già complicato caos mediorientale. E’ probabile che Leone XIV seguirà un copione diverso, pur continuando a camminare sui sentieri tracciati da Francesco. Magari livellandoli, smussando gli angoli di qualche pietra troppo aguzza. Ma andando avanti, con determinazione. E, soprattutto, con pazienza.
Francesco è stato il Papa delle grandi promesse riformatrici, quelle che lo annoverarono all’inizio del pontificato tra i beniamini dei rivoluzionari più o meno bene assortiti: bastonate ai cardinali infedeli, lotte contro soldi e privilegi, aperture a donne e laici, povertà e periferia. E su molti di questi temi ha davvero aperto strade fino a lì inesplorate o esplorate poco e male, denunciando una certa ipocrisia che non manca neppure nelle Sacre stanze. “Fare le riforme a Roma è come pulire la sfinge d’Egitto con uno spazzolino da denti”, disse una volta. E ogni messaggio natalizio alla curia si trasformava in un elenco di attacchi non proprio caratterizzati dallo spirito della festività che rende tutti più buoni. Ne soffriva le lentezze, la vocazione a custodire cenere anziché farsi dinamica e proattiva. Su altri dossier, però, i risultati sono modesti o nulli, lasciando solo polemiche e delusioni. E allontanando progressivamente quei circoli intellò che ritenevano d’aver trovato il loro nume tutelare, non capendo che al fondo – per le questioni centrali del cristianesimo – Francesco era tutto meno che un rivoluzionario come lo intendevano loro.
Ora, Leone. Il florilegio di commenti sul “Papa progressista” abbonda ovunque, se ne sottolinea la propulsione “sinodale” (che a seconda di chi lo dice e scrive si declina in modalità anche antitetiche), si mostrano le sue foto in mezzo al fango con gli stivali, mentre cucina, intento a cavalcare. Come se ci fosse il bisogno di cercare altro, qualcosa di diverso da quello che finora il Pontefice ha fatto: parlare di Cristo e di pace, citando Lui e Lui soltanto. E anche quando parla di pace, si va a cercarne significati utili a spiegare l’attualità geopolitica: starà con Trump o sarà un anti Trump? Come se il primo pensiero del Papa fosse decidere chi votare alle presidenziali del 2028.
Chi lo sa, magari non si era abituati più a sant’Agostino e forse in questo vanno lette anche certe perplessità o imbarazzi che il mondo, quello che mette i like al Papa solo quando parla di tutto meno che di fede, prova nel raccontare i primi passi del Pontefice americano. Quel mondo che aveva imparato a guardare il Papa come fosse una specie di segretario generale dell’Onu più saggio, un leader spirituale che si dava da fare con i problemi del mondo, dall’emergenza climatica all’uso della plastica. E piaceva, eccome. Anche quando se ne tagliavano i discorsi salvandone solo le citazioni utili per mostrarlo come un influencer o un uomo del popolo che parla come noi. Invece, uno che, presentandosi, cita subito Gesù Cristo, in questo mondo desta se non sospetto quantomeno diffidenza. Figuriamoci poi se si mette pure a recitare l’Ave Maria. Dodici anni fa, il pur innovatore Francesco si limitò a chiedere la preghiera del popolo sul vescovo, ma in silenzio. Leone XIV no, s’è pure presentato come “agostiniano, figlio di sant’Agostino”, con mezza piazza che non sapeva neanche di cosa stesse parlando. Il giorno dopo, in Sistina, entrando nelle pieghe del Vangelo scelto per la messa, ha gettato lo sguardo sulla “gente comune. Per loro il Nazareno non è un ‘ciarlatano’: è un uomo retto, uno che ha coraggio, che parla bene e che dice cose giuste, come altri grandi profeti della storia di Israele. Per questo lo seguono, almeno finché possono farlo senza troppi rischi e inconvenienti. Però lo considerano solo un uomo, e perciò, nel momento del pericolo, durante la Passione, anch’essi lo abbandonano e se ne vanno, delusi”. Che sia un segno, anche questo? Una profezia dell’amaro calice che toccherà bere a chi combatterà la buona battaglia? Lo dirà il tempo, sempre sovrano.
Leone XIV, nei suoi primi due interventi, è andato al centro dell’essenzialità cristiana, al cuore della fede. Che è il grande problema del nostro tempo, il mondo che si è dimenticato di Dio, come ha detto anche il cardinale decano nella messa Pro eligendo. Ma che già cinquant’anni fa aveva tormentato Paolo VI: “Non sarei mai venuto da Roma fino a questo paese estremamente lontano, se non fossi fermissimamente persuaso di due cose fondamentali: la prima, di Cristo; la seconda, della vostra salvezza. Di Cristo! Sì, io sento la necessità di annunciarlo, non posso tacerlo”, disse nell’omelia pronunciata a Manila. Per un Papa missionario, quel richiamo del predecessore che scelse come nome quello dell’apostolo delle genti, il canovaccio pare essere il medesimo. La fede da annunciare agli estremi confini della terra. Il programma è chiaro ed è ambizioso, fors’anche rischioso. Specie per questa epoca dove gli innamoramenti durano il tempo d’un sospiro.


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