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il vaticano

Il pesante fardello che peserà sulle spalle del nuovo Papa

Sergio Belardinelli

La solenne processione verso la Sistina ricorda che la Chiesa cattolica, al di là del potere e dei pronostici, custodisce ancora un senso di maestà e un compito urgente: trasmettere la fede in un mondo diviso tra cultura alta e popolare

La processione dei cardinali che entrano nella Cappella Sistina per il Conclave mi affascina. Il pensiero del Papa che verrà, la bellezza del luogo, il rosso delle loro vesti, il salmodiare che scandisce i loro passi, tutto tende a suscitare l’impensabile, il soprannaturale, qualcosa di sproporzionato tra quegli uomini, quasi che si apprestino a entrare dal tempo nell’eternità. Altro che affannarsi a indovinare il nome del prossimo successore di Pietro. In questa processione si riflette infatti qualcosa che soltanto la Chiesa cattolica è ancora in grado di offrire al mondo: il senso di una maestosità, che non è minimamente inficiata dalle sue forme pompose, proprio perché evoca sempre qualcos’altro: l’umiltà e il dono di sé fino alla fine, diciamo pure, una gloria che non è di questo mondo. 


In uno dei sui scritti più leggendari, Cattolicesimo romano e forma politica (1923), Carl Schmitt scrisse che “Ad ogni mutamento della situazione politica cambiano, a quanto pare, tutti i princìpi, meno uno: la potenza del cattolicesimo”. Per certi versi aveva ragione, ma, quando si tratta di cattolicesimo, bisogna sempre tenere in mente che la vera potenza è quella degli ultimi, i poveri, i malati, i sofferenti, non quella “politica” in senso stretto. Al di là del suo potere politico vero o presunto, la chiesa cattolica vive insomma soprattutto grazie alla fede e alla santità dei suoi fedeli, a qualsiasi classe sociale appartengano. E questo suggerisce qualche considerazione su un tema, col quale anche il nuovo Papa, più o meno come tutti i Papi che l’hanno preceduto, dovrò fare i conti: il tema della trasmissione della fede in un mondo culturalmente sempre più eterogeneo, dove però, grazie soprattutto alla diffusione dei social, si assiste a una sempre più marcata divisione tra cultura alta e cultura popolare, tra chi sa utilizzare i social e il digitale come una grande risorsa e chi invece semplicemente li subisce. 


Pur con alterne vicende e con momenti anche fortemente conflittuali, la chiesa cattolica ha sempre cercato di conciliare cultura alta e cultura popolare. Da un lato, infatti, c’è l’urgenza dell’evangelizzazione che, fin dall’inizio, si pensi alla vicenda della cosiddetta ellenizzazione, esige un confronto serrato con le diverse culture, al fine di acquisirne ciò che è buono e facilitare in questo modo la trasmissione del messaggio di Gesù; dall’altro, c’è la consapevolezza di avere a che fare con una parola rivelata in modo privilegiato agli umili, ai poveri e ai semplici, la quale costringe anche i teologi e i filosofi più sofisticati a fare i conti con la cura pastorale, quindi con il popolo, in un modo che non è semplicemente quello di chi sa ciò che altri non sanno. Ovviamente la catena di trasmissione tra alto e basso funziona in modo più o meno omogeneo, a seconda dei tempi e delle circostanze, ma sta di fatto che nella chiesa cattolica questa “trasmissione” è sempre stata percepita come un compito fondamentale, specialmente a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, allorché diventa sempre più problematico il confronto con un mondo che appare ormai secolarizzato, indifferente e addirittura ostile alla chiesa cattolica e al suo magistero. Sono gli anni del Concilio Vaticano II, gli anni in cui la chiesa sente di dover rifare i conti con se stessa e con il mondo contemporaneo, attenta certo alle sue possibili degenerazioni, ma anche alle opportunità che si stanno liberando in esso, e quindi alla necessità di comprenderle e valorizzarle, a vantaggio soprattutto dell’uomo, della sua libertà e dignità. 


Come è noto, questo modo particolare di rapportarsi al mondo, trova la sua esposizione sistematica nella Gaudium et Spes, la costituzione del Concilio Vaticano II sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, dove, non a caso, si parla non soltanto dell’aiuto che la chiesa può dare, ma anche dell’“aiuto che la chiesa riceve dal mondo contemporaneo” (n.44). “Nella cura pastorale si conoscano sufficientemente e si faccia buon uso non soltanto dei principi della teologia, ma anche delle scoperte delle scienze profane, cosicché anche i fedeli siano condotti a una più pura e più matura vita di fede” (n.62). In altre parole, per esprimere il messaggio di Gesù Cristo, si deve ricorrere ai concetti e alle lingue del tempo presente, in modo da adattare il Vangelo “sia alla capacità di tutti, sia alle esigenze dei sapienti” (n.44). Ecco il senso dell’evangelizzazione: uno sforzo di comprensione del proprio tempo che vada a beneficio di tutti. Non un atteggiamento elitario, dunque, e nemmeno un atteggiamento semplice e fideistico, ma un lavoro sul proprio tempo alla luce del Vangelo, consapevoli certo delle sfide e dei pericoli che il tempo contiene, ma anche fiduciosi nella forza illuminante del Vangelo e nella sua capacità di valorizzarne gli aspetti migliori.  Al di là delle molte chiacchiere che si fanno sul Conclave, credo che sia questo il principale problema che assilla oggi ogni cardinale e che assillerà domani il nuovo Papa. Godiamoci dunque la trepidazione di questi giorni, la pompa dei tanti riti che li abbelliscono e preghiamo per chi sarà chiamato a portare questo pesante fardello.