
Cardinale Robert Sarah (Ansa)
L'editoriale dell'elefantino
Il Pontefice che vorrei
Uno che mi piacerebbe è il Papa nero, non nel senso dei gesuiti, ma nel senso delle diocesi africane, che sono il sale della evangelizzazione d'oggi. Perché non ha senso prevedere quando si può auspicare e desiderare
A me i preti e i cardinali piacciono. Non coltivo pregiudizi verso la loro identità di genere, tutti maschi, non ho diffidenze verso castità e celibato, mi piace la loro romanità acquisita combinata al cosmopolitismo naturale di un collegio multinazionale e multiregionale, la tendenza al buon appetito bonario nella pipinara di Borgo Pio mi fa venire il buonumore, il gioco dei privilegi e degli appartamenti lo trovo naturale proiezione dello status, la meravigliosa e purpurea pompa degli apparati liturgici che li connotano la vedo ineffabile e perfino musicale o salmodiante, come le Litanie dei Santi, e l’età media veneranda non mi sconcerta affatto, mi sembra una caratteristica utile. Parolin andrebbe benissimo, sebbene il patto con la Cina sia un esempio, come il patto di Trump con Putin, di quel fallimentare e mitico deal, il metodo transazionale, che ha umiliato inutilmente gli ucraini e insuperbito l’aggressore, così come l’umiliazione del cardinale Zen e la mano tesa al partito unico di Beijing e alla sua Chiesa farlocca hanno devastato il martirio dei fedeli cinesi sotto la dittatura in nome non tanto della Realpolitik quanto della inculturazione dei gesuiti, da sempre abilissimi praticoni dell’art of the deal. Ma in astratto mi van bene tutti, ho già detto che non ha senso prevedere quando si può auspicare, desiderare, perorare, sperare. Dovessi scegliere sceglierei François Bustillo, diocesi di Ajaccio, francescano di talento, un basco naturalizzato francese che sembra un attore di Truffaut, che alla Chiesa del pesce rosso che va in circolo preferisce quella della trota che risale la corrente.
Un pesce ostinato che è muscolare, che si sforza di andare appunto controcorrente, un eminentissimo che ha il difetto esiziale di non avere ancora 55 anni ma si chiama Francesco (un nome da lui scelto come precisazione del François-Xavier battesimale), che è francescano, appunto, come quel Clemente XIV che sciolse la Compagnia di Gesù, e che da un Francesco Papa è stato creato cardinale a sorpresa, uno che non si sognerebbe mai di fare discorsi moralisti sugli animali da compagnia, cani e gatti, che invece affetta di amare e di considerare un antidoto alla solitudine, insomma un tipo formidabile. Un altro che mi piacerebbe è il Papa nero, ma non nel senso dei gesuiti, esperimento fatto e questionabile, nel senso delle diocesi africane, che sono a quanto parrebbe, anche per la testimonianza spesso invocata del papato trascorso, il sale della evangelizzazione d’oggi, e per di più non hanno paura della differenza e dello spirito tradizionale. Eppoi, ovvio, l’immagine di un Papa venuto dal Ghana o dal Congo, con la sua bella facies nera, circondata dall’eleganza del bianco, sarebbe potentissima, e di iconismi, locuzioni popolari e corrive, di tratti socializzabili, spendibili nel flusso postmoderno la Chiesa ormai vive, come quasi tutte le istituzioni, dunque perché non un Fridolin Ambongo Besungu, perché non un Peter Kodwo Appiah Turkson, perché non un Robert Sarah, con la sua teologia del silenzio, bellissima e profetica, che i suoi nemici irridono come teologia del Baobab? C’è da scommettere nella normalizzazione curiale all’italiana, oggi la più quotata, ma forse c’è da sperare nell’eccezionalità di un Papa giovanissimo o nel premio spirituale al continente in cui la fede, anche se gravata da un possente tradizionalismo, invece di arretrare fa progressi.