La vera periferia è qui

I cardinali presi alla fine del mondo dovranno pensare anche all'occidente scristianizzato, terra di missione ben più complicata delle lontane regioni dove la fede è invece viva

Matteo Matzuzzi

Seicentomila persone, lo scorso settembre, parteciparono alla messa papale a Timor Est. Era la metà di tutta la popolazione di quel lontano paese. Ha scritto Francesco nella “Fratelli tutti” che “ci sono periferie che si trovano vicino a noi, nel centro di una città, o nella propria famiglia”

Timor Est è un’isola a cavallo fra Asia e Oceania, è grande un po’ meno della Puglia e ha un milione e trecentomila abitanti. Lo scorso 10 settembre, metà di tutta la popolazione era assiepata nella spianata di Taci Tolu, a due passi dalla capitale Dili. Seicentomila persone, uomini e donne, vecchi e bambini. Tutti lì per una messa con il Papa, rappresentante – per chi chi crede – di Cristo in terra. Tutti lì a pregare, non a scattarsi selfie o a passare il tempo con lo smartphone cercando di immortalare Francesco. Un decennio prima, a Bangui, nella Repubblica centrafricana, mentre il Pontefice apriva la Porta santa del Giubileo della misericordia, la cattedrale stracolma mostrava gente di tutte le età in ginocchio, con le mani giunte. Passava il Papa. E così in Corea e in Mozambico e in ogni altro luogo lontano da Roma dove Francesco abbia messo piede. Gioia e preghiera, festa e raccoglimento. Le periferie che abbracciavano Pietro. Un esempio di fede viva, entusiasta. Un cattolicesimo dinamico, che non si perdeva in lamenti circa il crollo delle vocazioni o la partecipazione alle messe domenicali, che non vedeva i propri vescovi tenere estenuanti discorsi sul diaconato femminile e il celibato sacerdotale, che non contemplava preti intenti a infliggere ai pochi astanti omelie sull’uso di borracce di carta anziché di plastica, a elucubrare su riforme e rivoluzioni, tasse ecclesiastiche e oboli. Potere ai laici, dicevano a Roma in simposi, convegni o attorno ai tavoli sinodali che riunivano ecclesiastici, docenti in quiescenza ed ex maturi No Global ritrovatisi nelle vesti degli improbabili mistici del papato bergogliano. E mentre all’ombra del cupolone si discettava di tutto ciò, con i briefing della Sala stampa a dar conto di svolte improbabili, dichiarazioni cardinalizie su tutto lo scibile umano e si sciorinavano rivendicazioni d’ogni tipo, le periferie dimostravano che la fede è più viva che mai. 

 

Le periferie, categoria cardine del pontificato di Francesco. Periferie geografiche sì, ma anche sociali e culturali. Periferie esistenziali, soprattutto. Come per tante altre cose dette da Jorge Mario Bergoglio nei suoi dodici anni di pontificato, profondi concetti con tratti teologici e dal profondo sapore ecclesiale sono stati ridotti a slogan da usare come incisi in qualche predica o in aggiunte sempre utili per articoli dei giornali. Senza fermarsi un attimo a capire cosa quel concetto esprimesse davvero. E’ successo così, ad esempio, anche per “l’ospedale da campo”, per la Chiesa come ospedale da campo, mantra del pontificato conclusosi il 21 aprile scorso. A guardare qualche servizio televisivo in questi giorni di lutto, tale espressione veniva usata indistintamente per il ricordo dei clochard che di notte dormono sotto il colonnato del Bernini e per i sacchi a pelo che hanno costellato il sagrato di petrino nelle ore che hanno preceduto le esequie. Francesco intendeva qualcos’altro, qualcosa di più che una Chiesa “dormitorio”. In un’intervista di qualche anno fa a un giornale delle sue ville miseria argentine diceva che “quando parlo di periferia parlo di confini. Normalmente noi ci muoviamo in spazi che in un modo o nell’altro controlliamo. Questo è il centro. Nella misura in cui usciamo dal centro e ci allontaniamo da esso scopriamo più cose, e quando guardiamo al centro da queste nuove cose che abbiamo scoperto, da nuovi posti, da queste periferie, vediamo che la realtà è diversa.  Una cosa è osservare la realtà dal centro e un’altra è guardarla dall’ultimo posto dove tu sei arrivato. Un esempio: l’Europa vista da Madrid nel XVI secolo era una cosa, però quando Magellano arriva alla fine del continente americano, guarda all’Europa dal nuovo punto raggiunto e capisce un’altra cosa. La realtà si vede meglio dalla periferia che dal centro. Compresa la realtà di una persona, la periferia esistenziale, o la realtà del suo pensiero; tu puoi avere un pensiero molto strutturato ma quando ti confronti con qualcuno che non la pensa come te, in qualche modo devi cercare ragioni per sostenere questo tuo pensiero; incomincia il dibattito, e la periferia del pensiero dell’altro ti arricchisce”. 
Dopo dodici anni, forse, è dall’ultima terra su cui ha messo piede Magellano che bisogna ripartire per guardare l’Europa (e l’occidente più in generale) con un occhio diverso. Forse, parlando di periferia in riferimento al pontificato di Francesco, ci si è sbagliati. Si è stati troppo superficiali. Il Papa che va in Papua Nuova Guinea va in periferia, certo. Ma anche Lampedusa è, a suo modo, periferia. E lo è di sicuro, seguendo lo schema bergogliano, più di Timor Est. 

 

In questi giorni di pre Conclave, il tema della periferia torna nelle dichiarazioni strappate ai cardinali che corrono veloci verso l’Aula delle congregazioni. Dicono che non conta la provenienza geografica del futuro Pontefice, che il mondo è vasto e che i ragionamenti sono altri. Verissimo. Anche perché, per tornare all’immagine iniziale, siamo sicuri che sia più periferia Dili, con i suoi seicentomila fedeli accorsi alla messa papale, che non una qualunque città europea e perfino italiana? Quando si parla di missione e ci si sofferma correttamente nel sottolineare – l’ha fatto anche il cardinale decano Giovanni Battista Re alla messa esequiale di una settimana fa – il “primato dell’evangelizzazione” per quanto riguarda i dodici anni di Francesco, il riferimento a cosa va, all’Asia sterminata o all’occidente stordito e incredulo? 

 

L’asse della Chiesa si è spostato a sud, sotto l’Equatore, si sentenziava nel 2013, quando al teologo tedesco succedeva un gesuita preso quasi alla fine del mondo. I popoli del sud rivendicavano d’aver finalmente visto la luce, sottolineavano il ribaltamento della prospettiva: la Chiesa eurocentrica e occidentale ora era governata con gli occhi di chi l’aveva sempre vista distante, lontana e inafferrabile. Che cos’è allora la periferia, quella vera? E’ l’isola in mezzo all’oceano che crede davvero che Gesù è il figlio di Dio, o una delle nostre magnifiche cattedrali gotiche, ridotte sovente a musei per turisti disinteressati che usano i banchi (quando ci sono ancora) come panchine su cui rilassarsi e magari schiacciare un pisolino al fresco dopo un’intensa camminata per le vie dello shopping e la capatina in qualche bel museo? L’evangelizzazione va fatta in quelle che storicamente sono le terre di missione o bisogna rifarla qui, nelle nostre strade e nelle nostre piazze? Chissà se i cardinali, che mai come stavolta rappresentano l’universalità della Chiesa, affronteranno tale questione. Certo, è più probabile che lo faccia qualche porporato europeo, uno di quei vescovi che non sa come mantenere aperte le chiese e constata, un po’ rassegnato, che a popolarle sono gruppetti di teste canute sempre più sparute. “Con la fede, l’occidente perde anche la ragione: bisogna saperlo. O si apre al divino, o perde le sue fondamenta, la sua ragione di essere: la sua identità rimane profondamente cristiana”, ha detto al Corriere della Sera il cardinale Angelo Bagnasco, non elettore ma presente a Roma per le congregazioni generali. Occidente che, ha aggiunto, “propaga il vuoto dell’anima”. Il paradosso di un mondo catapultato nella modernità, iperconnesso e catastroficamente costellato di solitudini. Giovani e vecchi, senza distinzioni: soli. “Stiamo attenti che le nostre città affollate non diventino dei ‘concentrati di solitudine’; non succeda che la politica, chiamata a provvedere ai bisogni dei più fragili, si dimentichi proprio degli anziani, lasciando che il mercato li releghi a ‘scarti improduttivi’. Non accada che, a furia di inseguire a tutta velocità i miti dell’efficienza e della prestazione, diventiamo incapaci di rallentare per accompagnare chi fatica a tenere il passo. Per favore, mescoliamoci, cresciamo insieme”, disse Francesco in occasione della terza Giornata mondiale dei nonni e degli anziani. Nella Fratelli tutti ha scritto che “ci sono periferie che si trovano vicino a noi, nel centro di una città, o nella propria famiglia. C’è anche un aspetto dell’apertura universale dell’amore che non è geografico ma esistenziale. E’ la capacità quotidiana di allargare la mia cerchia, di arrivare a quelli che spontaneamente non sento parte del mio mondo di interessi, benché siano vicino a me”. 

 

La periferia della fede è l’occidente, incapace allora di rendersi conto della sua anima cristiana, che è viva e non è solo un mero retaggio culturale. Disse Benedetto XVI che “il problema dell’Europa di trovare la sua identità mi sembra consistere nel fatto che in Europa oggi abbiamo due anime: un’anima è una ragione astratta, anti storica, che intende dominare tutto perché si sente sopra tutte le culture. Una ragione finalmente arrivata a se stessa che intende emanciparsi da tutte le tradizioni e i valori culturali in favore di un’astratta razionalità. L’altra anima è quella che possiamo chiamare cristiana, che si apre a tutto quello che è ragionevole, che ha essa stessa creato l’audacia della ragione e la libertà di una ragione critica, ma rimane ancorata alle radici che hanno dato origine a questa Europa, che l’hanno costruita nei grandi valori, nelle grandi intuizioni, nella visione della fede cristiana”.  Francesco, già nei suoi primi passi da Pontefice, notava che i bambini non sapevano farsi il segno della croce. Lo constatò in un’udienza, dicendo: “Avete visto come i bambini fanno il segno della croce? Non sanno cosa fanno. Fanno un disegno che non è il segno della croce: per favore, mamme, papà, nonni insegnate ai bambini a fare bene il segno della croce e spiegategli che è avere come protezione la croce di Gesù”. 

 

In Europa qualche segno in controtendenza c’è, dalla Scandinavia alla Gran Bretagna, fino alla Francia, con le migliaia di battesimi adulti e di adolescenti nell’ultima veglia pasquale. Giovani in cerca di Dio che restano incantati dal modello di fede proposto dalla Chiesa cattolica: “Noi abbiamo il tabernacolo”, diceva un sacerdote svedese cercando una ragione che spiegasse l’incredibile e non facilmente comprensibile aumento delle conversioni in terre conquistate dalla secolarizzazione. Ed è significativo che le conversioni siano più numerose tra le generazioni nuove, quelle dei ragazzi che hanno meno di venticinque anni, descritte sempre come apatiche e concentrate perennemente sul proprio smartphone. Isole, piccole, ma che conquistano spazio. Un po’ come i fiori che di colpo crescono del deserto. Francesco, nel suo pontificato, ha parlato di Europa, e ne ha parlato molto. Non è vero che se ne sia disinteressato. Ha cercato di scuoterla, definendola “stanca e invecchiata, non fertile e vitale, dove i grandi ideali che l’hanno ispirata sembrano aver perso forza attrattiva”. Il suo modello, incredibile dictu, era quello di Viktor Orbán, il leader europeo con cui aveva più confidenza, tanto da omaggiarlo con più di una visita a Budapest (fatto più unico che raro).  Lì, nella capitale ungherese, Francesco richiamò con nostalgia l’Europa dei popoli, concetto che oggi è stato fatto proprio dalle famiglie politiche si autodefiniscono “sovraniste”. Anche questo è un lascito che graverà sugli elettori chiamati a delineare, per quanto umanamente possibile, il destino della Chiesa cattolica in questo tempo di crisi e di cambiamenti continui. Ammesso che, fra i tanti elettori giunti a Roma da ogni parte del globo, la questione della periferia occidentale sia in cima alla propria agenda di priorità. E’ più che lecito dubitarne.       

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.