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SU QUESTA PIETRA
La lastra di marmo di Francesco e la tomba di Pietro. Più che simboli
Non solo un giallo archeologico, raccontato in un nuovo libro su Marghetita Guarducci. In ballo c’è il “primato petrino” attorno al Papa
La pietra è una lastra di marmo di Liguria, posta tra la Cappella Paolina che custodisce la Salus Populi Romani e la Cappella Sforza, in Santa Maria Maggiore. La scritta Franciscus poteva essere fatta con maggiore precisione, dovranno rimetterci mano. Ma nulla toglie alla semplice umiltà che Jorge Mario Bergoglio ha scelto per sé stesso. Del resto a pochi passi da lì, appena oltre l’altare maggiore, anche un altro grande della Roma papale, il massimo scultore del suo tempo, aveva scelto per sé una liscia lastra di marmo con la scritta “humiliter”: Laurentius Bernini. Questioni di marmi, questioni di pietre.
Su una nuda pietra, come la pietra del Sepolcro a Gerusalemme, si fonda la fede dei cristiani. Quella dei fedeli che hanno già reso luogo di pellegrinaggio questa basilica, perché dove c’è Pietro là c’è la chiesa. Che l’ultimo, per ora, dei suoi successori sia lì, accanto alla amatissima Salus, conta e non conta. Conta essere Pietro. E’ vero per i pellegrini, in questo tempo romano sospeso tra i giorni di Pasqua, quelli del lutto e quelli del Conclave. E dovrebbe essere perfino più vero per i cardinali che ciondolano tra una congregazione discutidora, una trattoria e due chiacchiere nel segreto di Santa Marta. E che si accapiglieranno, ma con felpato garbo fraterno, anche su uno dei temi caldi del momento: la sinodalità, il centro e la periferia, l’autonomia delle chiese locali e l’autorità del “primato petrino” che, invece, ne è il limite. Argomento che sempre s’infiamma, e viene da molto lontano. E che in quella pietra, sulla tomba di Pietro, ha uno dei sui capisaldi non soltanto simbolici.
La lastra di marmo di Francesco e quella del Sepolcro. La fede dei cristiani pellegrini a Santa Maria Maggiore e quella “discutidora” dei cardinali
Tutti gli scismi e le grandi eresie del passato hanno prima poi incontrato questa pietra d’inciampo. Ma la faccenda iniziò a diventare cruciale quando, correva l’anno 1518, il Vescovo di Roma e successore di Pietro, allora il figlio di Lorenzo il Magnifico, Leone X, si accorse di avere un problema. Aveva appena lanciato un ambizioso fund raising per la costruzione della nuova e grandiosa Basilica dell’Apostolo quando, per la prima volta in quindici secoli, qualcuno metteva storicamente e teologicamente in dubbio la legittimità del suo primato. L’anno prima Lutero aveva appeso sulla porta di una chiesa in Turingia le sue tesi contro la corruzione della Chiesa. I tentativi di contestare il primato petrino hanno sempre puntato a sminuire o negare non solo l’esistenza della tomba dell’Apostolo, ma la sua stessa presenza a Roma. Per Lutero era una faccenda urticante, se ancora tre decenni dopo la sua visita a Roma, nel suo libello più violento scritto a Concilio di Trento già iniziato, Contro il papato in Roma fondato dal diavolo, disse: “Questo posso allegramente dire, per quanto ho visto e udito a Roma, che cioè a Roma non si sa dove siano i corpi dei santi Pietro e Paolo, o addirittura se vi siano. Papa e cardinali sanno benissimo che non lo sanno”.
Eppure, con o senza certezze archeologiche, che non esistevano, la Chiesa e persino i Papi (che sovente avevano tutt’altro per la testa) hanno mantenuto incrollabile la certezza di quella memoria viva. Che Pietro riposasse proprio lì, dove Costantino aveva a tutti costi voluto che sorgesse l’altare della “sua” basilica. In quel luogo che poi Michelangelo volle a perpendicolo sotto la cupola, sotto la montagna di bronzo della Confessione che sovrasta l’altare di Papa Clemente, che venne costruito sopra a quello di Papa Callisto, costruito sopra quello di Gregorio Magno. Tutti quanti costruiti sopra l’edicola costantiniana, costruita a sua volta sopra una tomba inizialmente scavata nella terra per custodire il corpo di Pietro, che nell’anno 64 aveva subito il martirio a pochi metri da lì, nel circo di Nerone; dove a segnalare il punto esatto è rimasto per secoli l’obelisco muto che ora è in piazza di san Pietro, come ha raccontato Paolo Biondi nel suo bel romanzo Il testimone. Indubbie sono le testimonianze che già i primi pellegrini si recassero in quel luogo, e poi chiedessero di farsi seppellire lì attorno. Molti secoli dopo una archeologa ed epigrafista di grande scienza e di ferreo carattere, Margherita Guarducci, trovò dopo una lunga ricerca e una dura battaglia contro lo scetticismo di colleghi e prelati quel frammento di “muro rosso”: un pezzetto d’intonaco proveniente dall’interno di un piccolo loculo su cui una mano previdente aveva graffiato in greco sette lettere: “Petr eni”, abbreviazione di “Petros Enesti”, Pietro è qui. A indicare il luogo sicuro. Questa è la tomba.
La storia di come in età contemporanea, sessant’anni fa, si sia ritrovata la verità storica è un bel giallo archeologico. Che la stessa Guarducci raccontò poi in libri meticolosi e avvincenti, tra cui Il primato della Chiesa di Roma - Documenti, riflessioni, conferme, oggi difficilmente reperibili. Ma per chi voglia approfondire esce ora, per l’Editore Minerva, un libro in forma di romanzo che ha per protagonista proprio la studiosa che per prima identificò le reliquie dell’Apostolo: La tomba di san Pietro. La storia dimenticata di Margherita Guarducci, scritto dalla giornalista Tiziana Lupi intrecciando biografia, un pizzico di fiction, epigrafia e archeologia e i suoi complicati rapporti con la Curia romana. Fiorentina, classe 1902, Margherita Guarducci fu la prima donna a ottenere la cattedra di Epigrafia e Antichità Greche alla Sapienza.
La storia del suo lungo lavoro nella necropoli vaticana – la base della sua ricerca furono la miriade di epigrafi e graffiti che non erano stati mai analizzati – ha camminato per decenni parallela alla dura ostinazione sospettosa di studiosi e colleghi; ma anche alle prudenze e ai sospetti di una Chiesa cattolica che da un lato temeva brutte sorprese (e se non si fosse trovato niente?) e dall’altro temeva gli effetti che la “bella sorpresa” avrebbe provocato: sulle altre confessioni che non riconoscono il primato di Roma e su quelle molte aree del cattolicesimo già a quei tempi apertamente in dissidio con il “centralismo romano”. Tiziana Lupi ricostruisce una vicenda che parte dalla morte di Pio XI, e dall’ordine di Papa Pio XII di avviare gli scavi sotto la Basilica.
Nel 1940 Pio XII fece qualcosa che per sedici secoli duecento e più Papi non avevano mai osato fare: scavò sotto l’altare della Confessione. Pio XII, prudente, disse che lo fece per dar seguito al desiderio del suo predecessore Pio XI di essere sepolto nelle Grotte vaticane. Gli scavi, guidati dal responsabile della Fabbrica di San Pietro, monsignor Ludwig Kaas, furono fatti senza la necessaria precisione ma bastarono per ritrovare il sito nella necropoli neroniana, anche se il punto della tomba non venne individuato correttamente. Ma Pio XII, alla conclusione del Giubileo del 1950, poté dichiarare: “Nei sotterranei della Basilica vaticana ci sono i fondamenti della nostra fede? La conclusione dei lavori e degli studi risponde un chiarissimo sì: la tomba del Principe degli apostoli è stata ritrovata”. Però i resti, ammise, “non è possibile provare con certezza che appartenessero alla spoglia mortale dell’Apostolo”.
Guarducci non si arrese, aveva un amico e alleato in curia: fu l’allora monsignor Giovanni Battista Montini ad autorizzarla nel 1953 a rifare daccapo il percorso fatto dai primi studiosi. Montini divenne Paolo VI, e la sua fiducia non venne mai meno. Alla fine, con un colpo di fortuna miracoloso o almeno romanzesco, Margherita Guarducci trovò un minuscolo frammento d’intonaco rossastro che era finito inopinatamente – non fu mai chiarito il perché – a casa di uno degli autori dei primi scavi, il gesuita padre Antonio Ferrua. Fu identificato come un frammento dalla parte interna di un antico loculo, su cui una mano incerta e in posizione scomoda aveva grattato quelle sette lettere greche. Fu ancora lei a ritrovare, in modo altrettanto avventuroso, la cassa di legno in cui al tempo di primi scavi erano state deposte le ossa malamente rimosse dal loculo. Le analisi confermarono che erano state avvolte in un manto di finissima porpora intessuto di fili d’oro: una sepoltura evidentemente regale. Passarono anni, finché Paolo VI, in un’udienza pubblica il 26 giugno 1968, poté dichiarare: “Nuove indagini pazientissime e accuratissime furono in seguito eseguite con risultato che noi, confortati dal giudizio di valenti e prudenti persone competenti, crediamo positivo: anche le reliquie di San Pietro sono state identificate in modo che possiamo ritenere convincente… abbiamo ragione di ritenere che siano stati rintracciati i pochi, ma sacrosanti, resti mortali del Principe degli apostoli”.
L’avventurosa storia del ritrovamento della tomba e delle ossa di Pietro – a proposito, e con buona pace di Lutero: dopo gli studi archeologici conclusi nel 2008 il cardinale Andrea Cordero Lanza di Montezemolo, allora arciprete della Basilica di San Paolo fuori le Mura, diede pubblicamente notizia che era stato individuato con certezza anche “il grande sarcofago” dell’apostolo Paolo – sarebbe solo un appassionante giallo archeologico. Se il problema di ciò che è fondato su quella pietra (“Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa”, Matteo) non fosse anche la questione del primato petrino.
Sulla continuità che lega la Chiesa di Roma all’autorità dell’Apostolo si fonda, prima che su ogni altra considerazione, il primato del Vescovo di Roma. Senza dover tornare a Lutero, la questione della sinodalità e dell’autonomia pastorale ma anche, entro certi limiti, dottrinale delle chiese locali – in verità, molto spesso, si tratta del desiderio di autonomia delle Conferenze episcopali: insomma una roba da vescovi, più che da semplici fedeli – è stata centrale nel Concilio, ed è diventata esplosiva nei decenni della contestazione interna alla Chiesa. Ma ancora negli anni di Francesco lo scontro con i vescovi tedeschi ha rasentato più di una volta i confini di un nuovo scisma. Se in quegli giorni burrascosi Paolo VI sostenne con tanto vigore la causa di Margherita Guarducci – come racconta il libro di Tiziana Lupi – è anche perché il colto pontefice bresciano capiva quanto fosse importante per l’hic et nunc della Chiesa.
La storia avventurosa e il significato del ritrovamento della tomba di Pietro sotto la Basilica. Dallo scherno di Lutero alla proclamazione di Paolo VI
Paolo VI è il Papa che alla fine del Concilio, il 7 dicembre 1965, approvò con il Patriarca Atenagora la Dichiarazione comune che cancellava dopo 900 anni le reciproche scomuniche tra cattolici e ortodossi. Ed è il Papa che, dopo il ritrovamento dei resti mortali di Pietro, si fece consegnare nove frammenti per conservarli nella cappella privata dell’appartamento papale, all’interno di una cassetta di bronzo con la scritta: “Ex ossibus quae in Arcibasilicae Vaticanae hypogeo inventa Beati Petri Apostoli esse putantur”. Quelle reliquie nel 2019 Papa Francesco decise di donarle, motu proprio, al Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo, successore dell’apostolo Andrea. Del resto la sera del 13 marzo 2013 Francesco si presentò sulla Loggia delle benedizioni come “Vescovo di Roma”, e ha sempre avuto speciale attenzione per l’apostolo Andrea, fondatore della Chiesa ortodossa. Il 29 giugno 2013, nel suo primo Angelus da Papa per la festa dei Santi Pietro e Paolo, aveva detto: “Ricordiamo anche che Simon Pietro aveva un fratello, Andrea, che ha condiviso con lui l’esperienza della fede in Gesù. Anzi, Andrea incontrò Gesù̀ prima di Simone, e subito ne parlò al fratello e lo portò da Gesù”.
Quelle reliquie di san Pietro che Francesco ha donato a Bartolomeo, il successore dell’apostolo Andrea fondatore della chiesa d’oriente
A 66 chilometri da Santa Maria Maggiore, nel cuore della Sabina, oggi un’ora di macchina ma un tempo erano più di due giornate di cammino, c’è la chiesa di Santa Maria della Lode a Vescovio, l’antica “cattedrale dei Sabini”. Pietro ci andò, probabilmente a piedi, in quel luogo dove allora sorgeva un fiorente mercato, il Forum Novum. La storia di questa stupenda chiesa paleocristiana e poi romanica e di questo luogo valgono bene una digressione. Anche quella di Vescovio è la storia di una lastra di pietra, e di Pietro, su cui si è fondata nei secoli la fede dei cristiani di quei luoghi, quando le persecuzioni erano persecuzioni e i Concili e le elezioni dei Papi qualcosa di più impegnativo di uno scambio di vedute teologiche nei corridoi di Santa Marta. Qui sorgevano ricche ville patrizie, con annesse proprietà agricole. In una di queste ville abitava la nobile famiglia degli Aureli-Ursaci, che fu la prima fuori Roma a convertirsi al cristianesimo.
C’era una piccola comunità, Pietro fu invitato a conoscerla. E nella sala da pranzo della villa, secondo la tradizione, celebrò la “Fractio Panis”, la messa. Vennero le persecuzioni, vennero i martiri Fabio, Massimo e Basso; a Vescovio si conservò il culto delle loro reliquie per secoli. Sorse la chiesa e l’altare, come per San Pietro a Roma, fu posto in un punto preciso, sopra al luogo in cui era stata la tavola della sala da pranzo dove Pietro spezzò il Pane. La memoria di quella prima messa restò per sempre. Vescovio crebbe d’importanza, nel medioevo ben cinque Papi furono vescovi qui. Tanto fu la centralità di questa chiesa che a fine Duecento fu chiamato da Roma un grande artista, Pietro Cavallini, quello da cui lo stesso Giotto aveva avuto di che imparare. Suo è l’affresco del Giudizio Universale. Nella navata dell’antica cattedrale si conservano in parte due cicli d’affreschi della sua bottega, storie dell’Antico Testamento e del Nuovo Testamento. Ma tanta era la devozione a san Pietro, che gli fu chiesto di evidenziarne al massimo la figura. Con idea geniale Cavallini inserì, quasi un “meme” ante litteram, la figura ben riconoscibile di san Pietro (anziano, con la barba) in molte storie: dal sacrificio di Isacco al Getzemani fa sempre capolino lui. Perché “Petr eni”, Pietro è (anche) lì.
E si può ritornare alla pietra di Liguria sotto cui riposa l’ultimo, ad oggi, successore dell’Apostolo. E da lì percorrere a ritroso i cinque chilometri scarsi fino all’altare della Confessione, dove la mattina del 7 maggio il cardinale Giovanni Battista Re, decano del Collegio cardinalizio, celebrerà la Missa pro eligendo romano pontifice, a perpendicolo sopra la piccola urna tornata al suo posto accanto al “Muro rosso” dove quella scritta, “Petr eni”, segnala da due millenni la fede della Chiesa.